Vaticano e famiglia
Il sospiro di sollievo per il successo a metà di Verona e la preoccupazione per la mancanza di un interlocutore
Trovo il monsignore fuori da Porta Sant’Anna, lo saluto con la mano e andiamo al baretto di fronte. Prende un cappuccino lungo dal dubbio colore, io m’accontento d’un caffè espresso con latte freddo a parte. Domanda a bruciapelo: ma il Papa come ha preso la questione di Verona? “Ha detto che non ha seguito”, mi risponde. Va bene, gli ribatto, questo ufficialmente. Ma a porte chiuse, che si dice? “Che sarà un problema. Non un problemone, ma un problema sì. Per fortuna gli attivisti erano divisi al loro interno, non tutte le associazioni hanno preso parte al congresso. Questo fa sì che la chiesa possa legittimamente dire di non essere rimasta a guardare – unica tra tutti – quel che accadeva là. Dubbi ne avevano parecchi. Di sicuro ha colpito la partecipazione, questo è innegabile”. Gli chiedo cosa voglia dire esattamente condividere la sostanza ma non i modi. Anche perché quel che conta è la sostanza, cioè la difesa della famiglia. “È vero, però appunto c’è modo e modo di far emergere quella sostanza. Un conto è fare un dibattito politico serio, altra cosa è circondarsi di personaggi legati ai settori più estremisti”. Va bene anche questo, caro monsignore, ma il dibattito politico serio dove ha portato? Silenzio, il monsignore finisce il cappuccino. È in difficoltà: “Manca un interlocutore politico che metta la famiglia al primo posto, ma la metta per davvero, con misure concrete e non con slogan da Ventennio”. E perché in Vaticano nessuno lo dice apertamente? “L’importante è farlo sapere a chi di dovere in modo implicito, e questo le assicuro che sta accadendo”.