Quando Roma era come Londra, un libro sul punk underground anni Ottanta
Un ritorno alla Capitale dei Bloody Riot, il gruppo punk più importante, dei Garcon Fatal, degli Shotgun Solution. Dove per comprare i dischi si andava da Disfunzioni Musicali a San Lorenzo
Anche Roma, incredibile a dirsi, è stata punk. Se avete vissuto, per questioni anagrafiche, l’epopea del punk capitolino, ovvero il proliferare di gruppi hardcore e spaccatimpani, sull’onda di Clash e Sex Pistols, con tutto il loro modo di porsi, pelle, catene e creste colorate (ma non tutti), allora non potete perdervi Roma brucia, quarant'anni di musica capitale, scritto da Federico Guglielmi, uno dei più bravi giornalisti musicali romani e non solo, per le edizioni Goodfellas (607 pag, 22 euro). “Il titolo si rifà a London Burning dei Clash ed è un’antologia personale, perché parlo solo dei gruppi che ho intervistato o recensito”, spiega Guglielmi. Ma di band ce ne sono in abbondanza, circa 200, la maggior parte sconosciute al di fuori dei circuiti underground. Insomma, qui si racconta tutto quello che c’è stato tra il Folkstudio, dove sono nati Venditti e De Gregori, e Il Locale, dove negli anni Novanta hanno mosso i primi passi Max Gazzè, Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Riccardo Sinigallia, i Tiromancino e tutta la nuova scuola cantautorale romana. Declinando poi in vari rigagnoli, come il rap e l’hip hop – ma nel libro di questo genere ci sono solo Gli Assalti Frontali – o gli ultimi fenomeni indie, più o meno nobili. “Uno come Calcutta può piacermi o meno, ma ha il merito di essere venuto fuori da solo, suonando e facendo gavetta”, dice Guglielmi. “È un libro urgente, necessario, che fa un po’ di ordine in un gran casino”, ha detto Riccardo Sinigallia, uno dei migliori musicisti romani di quest’epoca, presentando il libro sull’Appia. La prossima presentazione, a Roma, sarà il 4 luglio al Macro di via Nizza.
E allora scorrendo le pagine ci s’immerge in un mondo, e in una Roma, che non c’è più. Quella delle rassegne musicali degli anni 70 e 80, dove si andava a scoprire nuovi gruppi con spirito d’avventura, mentre adesso “si va ai concerti solo per sentire come sono dal vivo artisti di cui tutto si è già visto e ascoltato su Spotify o Youtube”, racconta Guglielmi, che negli 80 ha fatto anche il produttore, fondando una sua etichetta. Per questo, continua, “fare critica musicale prima era molto più difficile: ai lettori dovevi spiegare tutto, adesso invece devi dare solo una chiave di lettura”. Era la Roma dei Bloody Riot, il gruppo punk più importante, dei Garcon Fatal, degli Shotgun Solution. Dove per comprare i dischi si andava da Disfunzioni Musicali a San Lorenzo. “Quando ha chiuso è stata la fine di un’epoca”, ricorda Guglielmi. Era la città dove si leggevano riviste come Il Mucchio Selvaggio, Velvet, Blow Up e Rumore. Dove si ascoltavano Radio Città Futura e Radio Onda Rossa. Ora c’è Radio Rock, e molte emittenti sono finite sul web. “Attenzione, però, il punk non va politicizzato. E’ vero che nei suoi gruppi storici era fondamentalmente anarchico – Anarchy in the Uk è il manifesto dei Sex Pistols –, ma il punk italiano è stato anche molto disimpegnato, una sorta di liberazione dopo l’impegno a ogni costo degli anni 70”, dice Guglielmi. Per i ragazzi di quell’epoca il punk era ritrovarsi, suonare, scatenarsi, “pogare”, e fare casino. Contestare il sistema, ma a modo loro. E adesso, il punk è morto? “Gruppi ce ne sono ancora. Ma, al di là del genere, la musica underground a Roma vive un grande fermento, ci sono tante band. Per ascoltarle basta farsi un giro al Trenta Formiche al Pigneto, a Le Mura a San Lorenzo, al Black Market a Monti. Poi ci sono il Monk, che è l’erede spirituale del Circolo degli artisti, e il Largo Venue”. Insomma, per chi non vuole accontentarsi solo dei Thegiornalisti (a proposito, nel libro la stroncatura di Guglielmi è imperdibile) di roba ce n’è.