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Rebibbia e Regina Coeli sotto controllo, ma in carcere ci si ammala

Alessandro Luna

Forte impegno della magistratura di sorveglianza: 300 ingressi in meno. Ma il sovraffollamento preoccupa

Roma. I numeri del Lazio, come d’altra parte quelli nazionali, segnerebbero un trend decisamente positivo se non fosse per le Rsa, i centri anziani o gli ospizi che, di giorno in giorno, si stanno trasformando in piccoli focolai che sporcano i numeri e mantengono alta la curva dei contagi. Sono strutture che hanno in comune il fatto di ospitare in spazi abbastanza ristretti e comunitari le persone che ci vivono. Ed è per questo che si comincia a guardare con un po’ di preoccupazione e apprensione un altro tipo di strutture che, pur molto diverse, hanno alcune caratteristiche comuni alle Rsa: le carceri.

 

E’ diffuso il timore, tra le associazioni e i famigliari dei detenuti, che la storica condizione di sovraffollamento di queste strutture possa diventare la scintilla di focolai simili a quelli delle Rsa. Come ci ha spiegato Stefano Anastasia, uno dei fondatori dell’associazione Antigone, da sempre impegnato nelle condizioni delle carceri e in costante contatto con le direttrici del carcere romano di Rebibbia: “Si tratta di strutture, per promiscuità, molto simili e quindi non bisogna abbassare la guardia, per evitare che diventino i nuovi focolai. A Rebibbia si è scoperto qualche settimana fa che due operatori sanitari della sezione femminile del carcere erano risultati positivi. Uno di loro non faceva visite a Rebibbia da tempo, mentre l’altro era stato nella sezione femminile proprio il giorno prima di essere risultato positivo. Così la direttrice ha isolato tutte e sei le donne che lo avevano incontrato per sottoporle a tampone. La situazione sembrava quindi essere rientrata, ma altri nove operatori sono risultati positivi e si è quindi dovuto procedere a uno screening a tappeto che ha coinvolto quasi un centinaio di persone, tra cui una detenuta è risultata positiva ed è stata trasferita allo Spallanzani. La buona notizia è che queste strutture non hanno visto ancora un’esplosione simile a quella delle Rsa perché si è agito con estrema tempestività nell’isolarle rispetto al mondo esterno, sospendendo visite e limitando gli ingressi già a febbraio, mentre nei centri anziani e negli ospizi si è agito a inizio marzo. Ma il problema è che le carceri potrebbero essere, per una ragione storica e strutturale, un terreno estremamente fertile per questo virus. Infatti, mentre nel paese il trend è in discesa e i casi giornalieri diminuiscono, tra le celle la progressione è più sostenuta rispetto al mondo esterno. I casi sono raddoppiati in sole due settimane, sia per via del problema del sovraffollamento delle nostre carceri, che per il fatto che molti detenuti presentano storie di vulnerabilità sanitaria pregressa. Spesso si parla di quadri clinici già complicati e questo è un altro punto in comune con le strutture sanitarie come Rsa, ospizi e centri anziani”. Affidandoci a una similitudine, si potrebbe dire che un caso di coronavirus viaggia nel mondo civile come una fiamma in una casa di mattoni, mentre in un ospizio o in un carcere divampa come il fuoco in una casa di paglia.

 

Ma quali sono quindi le precauzioni che si possono prendere? Ci dice la sua Riccardo Magi, deputato di +Europa e leader radicale, che avverte: “Nelle carceri stiamo scherzando col fuoco. Sono strutture in cui non si può applicare la norma di distanziamento sociale e, quando si trovano dei positivi, individuare la catena di contatti da isolare è praticamente impossibile, visto che i detenuti condividono spazi e ambienti comuni ed entrano in contatto gli uni con gli altri continuamente. Andrebbero fatte uscire almeno 10.000 persone, con depenalizzazioni o conversioni in isolamento domiciliare di alcune sentenze. E si dovrebbe cercare di non affollare ulteriormente le carceri già piene”. A che punto siamo su questo fronte lo abbiamo chiesto ad Anastasia: “Nel Lazio so che la magistratura di sorveglianza sta lavorando per evitare in tutti i casi possibili il carcere e per fortuna in Italia ci sono stati, nell’ultimo mese, 5000 ingressi in meno, di cui 3-400 solo nel Lazio, il che dà un po’ di respiro a strutture come Rebibbia o Regina Coeli. Ma le misure del governo ancora sono insufficienti. L’articolo 123 del decreto Cura Italia prevede l’utilizzo del braccialetto elettronico per pene superiori ai sei mesi, mentre l’isolamento domiciliare ordinario no. Arcuri si è impegnato, in un accordo con Fastweb, a comprare i braccialetti necessari per mandare quante più persone possibile ai domiciliari, ma nel frattempo ci sono giudici che procedono per isolamento ordinario e altri che non lo fanno. Nel frattempo, non ci resta che sperare e pregare che in carceri come Rebibbia non scoppino altri casi o che quelli che emergono vengano gestiti in tempo e con tempestività”. Un mese di tempo prima che le condizioni delle carceri possano cominciare ad avvicinarsi agli standard cui già dovrebbero rispondere. Nel frattempo a Roma, come spiega Riccardo Magi, “non ci sono state grandi emergenze perché in generale nel Lazio al situazione è sotto controllo. Ma non bisogna abbassare la guardia e serve agire subito per evitare che le carceri diventino le prossime Rsa. Sono proprio le strutture in cui le persone vivono in poco spazio e condividendo ambienti comuni che i focolai possono trasformarsi in nuove emergenze”.

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