ROMA CAPOCCIA
Come nasce il papocchio riciclato di Hirst a Villa Borghese
La mostra è la riproposizione stantia, dopo quattro anni, dell’esposizione che l’artista fece a Venezia. Imbarazzante
Fra poche settimane, il “giardino dei ciliegi” di Damien Hirst, centosette pannelli dipinti durante i mesi di lockdown in un’urgenza di catarsi e già esposti in un immenso murale a Londra, andranno in mostra alla Fondation Cartier di Parigi fino a novembre. Non sappiamo se l’abbiate vista, riprodotta sui quotidiani d’Oltremanica e sui maggiori siti di critica d’arte; si tratta però di un’opera di impatto cromatico e forza vitale dirompenti almeno quanto appaiono invecchiati e ormai privi di ragione storica gli ottanta manufatti scelti dalla più grande operazione commerciale di Hirst, “Treasures from the wreck of the Unbelievable”, che quattro anni dopo la grande esposizione veneziana alla Punta della Dogana e a Palazzo Grassi, dall’altroieri sono comparsi alla Galleria Borghese, in una di quelle mostre modello “dialogante” fra antico e nuovo che al momento piacciono moltissimo ai curatori e che talvolta riescono molto bene, vedi la mostra dedicata ad Alberto Savinio a Palazzo Altemps.
Come molti ricorderanno, i “Tesori”, progetto per il quale Hirst, all’epoca in caduta libera di consensi e quotazioni, ricorse al supporto finanziario di diversi partner fra cui François Pinault perché la faccenda costò cinquanta milioni di sterline nonostante si fosse ricorso alle fonderie cinesi, rappresentavano un divertissement intellettuale teso a esplorare il gusto e le capacità interpretative degli stessi collezionisti: l’artista si era inventato, con la maestria di un conoscitore della tradizione antica ma anche la furbizia di quel tale che a Napoli vendette migliaia di t-shirt con la cintura di sicurezza stampata sopra, la storia di uno schiavo liberato ricchissimo, Cif Amotan II, che nel I secolo avanti Cristo aveva perso tutta la sua preziosa collezione d’arte in un naufragio, poi fortunosamente e perigliosamente recuperata dallo stesso Hirst. Era, ovviamente, una colossale presa per i fondelli a partire dai nomi della nave, Apistos, cioè “l’incredibile” e dello schiavo (in anagramma “I am fiction”), che molti intellos trovarono oltremodo divertente. Per colmo di fortuna dell’artista e dei suoi mecenati, nell’estate del 2017 si era anche in pieno dibattito sulle fake news, che decuplicarono l’impatto della mostra, facendo sorvolare molti critici sulle evidenti pecche esecutive dell’insieme ben oltre lo sbandierato kitsch che, come ben si sa, è luogo molto amato dagli stessi intellos allorquando lo possano collocare in un museo e non, invece, nelle residenze dei Casamonica dove invece è molto facile trovare statue di arcieri in bronzo dorato del tutto simili a quelle esposte a Palazzo Borghese.
Quelle ricchezze da palazzo di Erdogan o da oligarca russo con villa sul Lago Maggiore e Diana cacciatrice sulla biga in marmo rosa dominante il cocuzzolo della collina, non hanno retto all’evoluzione della storia. Quattro anni e una pandemia dopo, il gran ridere che si fece tutti alla Punta della Dogana si è trasformato in una vaga desolazione e in un certo senso di imbarazzo, anche per la schiacciante superiorità estetico-concettuale delle opere raccolte nella galleria rispetto a quelle di Hirst; questo, nonostante la bontà dell’idea di fondo dei curatori, Mario Codognato e Anna Coliva ufficialmente alla sua ultima mostra nella galleria che ha diretto con abilità per anni, e cioè mettere a confronto il trionfo della ricchezza e dell’avidità collezionistica della villa “di delizie” del cardinale Scipione Borghese, classico esempio dell’arricchito tardo cinquecentesco, con oggetti e opere adattissime al gusto degli arricchiti mondiali di oggi. Ma al di là di alcune oggettive similitudini nelle simbologie (la conchiglia barocca, per esempio) Hirst, che peraltro si è messo a dipingere fiori avendo colto come è giusto lo spirito del momento, non è Bernini e non è Canova: la percezione tattile del busto del cardinal Borghese nulla spartisce con il “sinner” in marmo nero della bottega di Hirst, e la “Venere vincitrice” di Canova rende oggettivamente inguardabile la “donna distesa” in marmo di Carrara del 2014, che sembrava terribilmente cheap a Venezia e adesso lo è in moltiplicazione geometrica. I solerti comunicatori della mostra alla Galleria Borghese (sponsorizza Prada, ma ci è stato specificato che trattasi della signora Miuccia, collezionista di Hirst dalla prima ora, non della Fondazione al momento impegnata con una mostra veneziana sui risvolti storici della pittura che è davvero eccezionale) ci avevano raccomandato molto la serie di spot paintings Colour Space, mai visti in Italia, incastonati fra i micromosaici e i dipinti su lavagna del primo piano. Sul tema pois multicolori, abbiamo visto molto di meglio anche dallo stesso Hirst.
Resta invece, insoluto, il tema dei visitatori di allora e di oggi. La media, ne avemmo purtroppo la prova a Venezia piantandoci per mezz’ora davanti alla serie dei personaggi di Walt Disney trattati come reperti d’arte antica, capiva zero dello spirito di Hirst, non essendoci spiegazioni affisse in giro, e prendeva tutto per buono e autentico, al punto che ascoltammo con le nostre orecchie un padre americano spiegare serissimo che quella del vecchio Walt era una grande tradizione risalente ai “times of the Romans” (vedete che cosa succede a ridurre le ore di insegnamento di storia dell’arte; non osiamo immaginare chi ci arriverà in università a Roma post-cancel culture fra qualche anno). Per generazione, per formazione e per professione non siamo dalla parte di chi ama turlupinare l’ignoranza, anzi vorremmo emendarla, per cui ci ha vieppiù innervosito ascoltare che lo stesso livello di analisi si appuntava l’altro giorno alla Galleria Borghese davanti alle dee egizie fittizie dai seni rifatti a tronco di cono e poi sulla Leda di scuola leonardesca del primo piano che tre gentili signore non capiva perché mai “prendesse per il collo un’oca”. E’ la pura verità, eppure vi giuriamo che questa avremmo voluto inventarcela.