Roma Capoccia
Bambole, foto, dipinti e video: a spasso nella Roma rovesciata
Dall’ospedale delle bambole fino al museo della mente, passando per il “Louvre”: piccola guida fuori dai soliti circuiti
Guido Ceronetti, in “Insetti senza frontiere”, si poneva una languidamente retorica domanda: viaggiare per turismo ha davvero senso? In alcuni casi, quando si scorgono i turisti dispersi per le strade assolate di Roma, in un timido ritorno alla vita dopo la buriana della pandemia e però, al tempo stesso, li si rimira nella eterna ripetizione mantrica del visitare sempre gli stessi luoghi, le stesse rovine, le stesse chiese, gli stessi musei e del crogiolarsi in quel volto solare, da Estate romana permanente, di una città resa ologramma, verrebbe la tentazione di rispondere di no.
Ma c’è una Roma meno conosciuta, meno solare, un autunno romano intessuto di atmosfere crepuscolari e ctonie, un volto rovesciato dell’Urbe situato lungo la periferia delle mappe turistiche standard, spesso ignoto alla stessa popolazione cittadina e che invece meriterebbe di esser conosciuto, visitato e soprattutto, cosa questa che spesso non si riesce a fare, vissuto.
A via di Ripetta, caratteristica feritoia viaria tumulata nel cuore geografico del centro cittadino a pochi passi da piazza di Spagna, se ne sta sorniona la vetrina di quel metafisico posto che i romani più fortunati conoscono come “Ospedale delle Bambole”, e il cui nome reale è “Restauri artistici Squatriti”, una bottega artigiana sospesa in una dimensione eterea tra antico presepe da “Roma sparita” e un film giapponese di fantasmi: la piccola vetrina è un caleidoscopio di teste di bambole dalla fronte aggrottata o spezzata e dalle orbite cave, un dipinto in rilievo che rimanda una spettrale atmosfera da film del primo Dario Argento, surreale e carico di oscuri simbolismi. E’ una bottega, si diceva, e non un museo. Tuttavia quella vetrina – con gli interni carichi fino all’inverosimile di bambole, pupazzi pregiati, anfore, tutti bisognosi di attenzioni e di riparazione da parte delle sapienti cure della famiglia Squatriti che da decenni si occupa di questa particolare attività – rimanda all’idea di un viaggio onirico: merita un passaggio e uno sguardo attento.
Poco più a sud, nel cuore del Ghetto, in via della Reginella c’è una deliziosa wunderkammer, il cui nome potrebbe far inarcare le sopracciglia in un moto di straniamento: il museo del Louvre. Ed è già divertente suscitare sgomento nel consigliare la visita del museo del Louvre, a Roma, scardinando le certezze geografiche del turista. Si tratta della reincarnazione della galleria Maldoror che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, in altra localizzazione urbana, produsse i vagiti di una organica ricerca avanguardista ambientata tra gli antichi paesaggi romani. Una galleria del tutto peculiare, il Louvre romano, distinta in due locali. Il primo è un luogo di decantazione impressionante di un corpus globale di centoquarantamila foto, appartenenti al gotha della fotografia e dell’arte mondiale, da Francesca Woodman (che fu amica del mentore della galleria, Giuseppe Casetti, e che soggiornò a lungo a Roma nella sua breve ma folgorante esistenza) a William Klein, Letizia Battaglia, Mario Schifano e Joseph Beuys. Il secondo spazio è invece esposizione permanente di cataloghi, libri, dipinti e altri oggetti d’arte, dove aggirandosi con cura e profondo rispetto si potranno osservare i nomi di Artaud, dei surrealisti francesi, di Marina Abramovic, di Pasolini e di Ezra Pound, di Christo. Lettere, documenti originali, prime edizioni librarie ormai rarissime come quelle della “Metafisica del sesso” di Evola o di “Las uvas y el viento” di Pablo Neruda, con tanto di dedica di Neruda a Renato Guttuso e consorte.
Spostandoci più a nord, nord ovest per la precisione, nel comprensorio di Santa Maria della Pietà, incastonato tra i suburbi del Trionfale e di Ottavia, in quello che fu ospedale dei poveri e dei malati psichici, si accede a una esperienza sensoriale gotica e a tratti al limite: il Museo laboratorio della mente. Atmosfera perfetta, considerando che sorge nel padiglione di quello che fu, sfrondando il pietismo semantico, un manicomio. Si tratta di una struttura istituzionale, gestita dalla Asl Rm-1, ed è un museo di narrazione che punta a operare e stimolare una riflessione sulle istituzioni manicomiali, sul disagio psichico e sui drammi dell’esclusione sociale. Ci si immerge, letteralmente, in una visita tridimensionale, suggellata da video ed esperienze sonore, ambientali, ellittiche e serpentine che rimandano plasticamente, complice la suggestiva location, il senso profondo della marginalità e dell’istituzione totale, con il suo carico di sofferenza.
E avanzando in queste aule a modo loro sinistre ed evocative, tra lucori e narrazioni di dolore, si sperimenta il senso profondo della citazione di chi il male psichico lo ha ben conosciuto, la drammaturga inglese, morta suicida a soli ventotto anni, Sarah Kane che in “Psicosi delle 4:48” ha scritto “una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente”. Proprio come questa Roma.