Roma Capoccia
“Vi spiego come si diventa laziali”. Intervista ad Albinati
Una chiacchierata con lo scrittore tra calcio e letteratura, poco prima della sua "Lazio magistralis" a parco Labia, anteprima di un festival sportivo-editoriale
Laziale esistenzialista. “Davvero mi sono descritto così?”. Sì, professore, in Maggio selvaggio. “Non ricordavo”, dice Edoardo Albinati. “Però sì, l’assurdità di appartenere a una minoranza, perdere, soffrirne e non poterne fare a meno è pura lazialità e anche puro esistenzialismo”. Primo classificato al Premio Strega nel 2016 con La scuola cattolica, lo scrittore non ama esibire la sua “unica fede”. Però accetta di parlarne, anche in pubblico: ha inaugurato ieri sera – con una “Lazio magistralis” – Socrates, sport storie società, festival sportivo culturale e fiera editoriale in programma dal 17 al 19 settembre al terzo municipio. Al Foglio anticipa qualcosa del discorso.
Di famiglia juventina, racconta di aver simpatizzato per la prima volta con i biancocelesti all’età di dieci anni “per via del portinaio del mio palazzo, disperato per la retrocessione in serie B della squadra”, durante l’ultima giornata del campionato ’66-’67. Alla conversione l’ambiente circostante, il Trieste-Salario, ha contribuito? “Non direi. Anzi, chiarirei un equivoco: questo è un quartiere romanista. In proporzione minore rispetto agli altri, uno a due invece di uno a quattro”. Quando gli si chiede quale giocatore rappresenta il simbolo della lazialità, come Alessandro Piperno (laziale), sceglie un interprete minore. E, come Emanuele Trevi (pure lui laziale), trova somiglianze tra letteratura e pallone: “Interi campionati o singole partite si possono leggere come un insieme di peripezie”. Un esempio? “Un Lazio-Bari 4 a 3”, stagione ’95-’96, “incontro quasi perso contro una squadra assai più modesta” ricorda. “Vede, da noi vige l’incertezza. Perché non si è mai del tutto convinti di essere forti. Al contrario dei romanisti, sempre arroganti e a sproposito”. Quante volte ha giurato a sé stesso che non avrebbe seguito più la sua squadra? “Avrei solo l’imbarazzo della scelta”. Per trovare il momento più luminoso del suo tifo, invece, bisogna rovistare nella memoria. “Un’invasione di campo nel 70, qualche settimana prima dei mondiali in Messico: insieme ad altri, scavalcammo le transenne e inseguimmo Giorgio Chinaglia per fargli indossare un sombrero come buon auspicio”.
Facciamo un gioco. Di fronte a lei si trovano un tifoso interista e uno milanista, due che non nascondono legami di parentela tanto da chiamarsi “cugini”. Ecco, come spiegare loro il derby capitolino? “Impossibile fare un confronto”. E perché? “Perché a Roma è diverso. A Roma di rado c’è qualcosa in palio. Lo scontro è così meraviglioso perché gratuito e crudele”. Passiamo al presente: come valuta Maurizio Sarri in panchina? “Per me l’azione ideale resta quella della Lazio di Eriksson dove si arrivava in porta con pochi passaggi. Detto questo, Sarri rappresenta una novità per cui nutro molta simpatia”. E al passato prossimo: del laziale eccellente Roberto Mancini, architetto della vittoria dell’Italia agli Europei, cosa pensa? “Col tempo è diventato saggio”.