roma capoccia
Remoria, ovvero la psicogeografia periferica di Roma. Al Macro
Dal 10 febbraio sarà possibile vedere al museo romano di Via Nizza l'installazione dedicata al saggio/romanzo di Valerio Mattioli dove si riassemblano le dinamiche interiori di un mondo sotterraneo
Nella vasta mitografia di certa controcultura “antagonista” alberga ancora oggi, triste e insoddisfatto, il mitema del buon selvaggio rousseauiano: elevato dalla melma del lumpenproletariat disprezzato per insufficiente coscienza di classe da Marx, ma sommamente lodato dalla palingenesi della broda vagamente controculturale anni settanta/ottanta, eccolo alzare ancora oggi, dalle periferie, la testa.
Ce lo troviamo dipanato come una ragnatela al Macro di Via Nizza, a partire dal 10 di febbraio, nella installazione dedicata al saggio/romanzo Remoria di Valerio Mattioli, che ha visto la luce nel 2019 per la Minimum Fax: e cosa è Remoria se non la Roma invertita, celebrata nel baccanale della periferia estrema e liminale, nel gorgo suppurato di ogni sottocultura evolutasi e increspatasi fino a infrangersi nel suono sordo dell’eroina e dei rave e dei festival punk hardcore?
Mattioli in quel saggio ha tratteggiato una psicogeografia, di punto in punto, che ha riassemblato le dinamiche interiori di un mondo ctonio, rimasto a borbottare nel calderone mobile di posti come Centocelle, Ostia, Torre Maura, tra spazi occupati, riviste queer, Lory D., Matteo Swaitz, il Truceklan, esperimenti psicoletterari debordanti come la oggettivamente compianta Torazine, ultras, coatti, Stefano Tamburini, la scena rave, e la magia del caos.
Nulla è vero, tutto è permesso, citava William S. Burroughs riprendendo l’aureo motto del Vecchio della Montagna, fondatore della Setta degli Assassini: e nel libro in cui viene snudata una Roma che non esiste davvero e che viene fondata dalla fisionomia algebrica di Remo, al posto di Romolo, ogni pagina vede riaffiorare un istante, lungo, sofferto e ininterrotto di un mondo che forse non è mai davvero esistito e in cui tutto sembra essere permesso.
Il libro, pur irrisolto in alcune sue cadute verticali, come ad esempio la quasi quintessenziale mancanza di luce gettata sulle controculture che ben hanno vissuto fuori dal range dell’antagonismo politico, merita di essere letto. E la mostra, lo scrivo prima ancora sia inaugurata, meriterà certo di esser vista. E però.
Però, in questi frammenti che non puntellano lo sfacelo delle nostre miserie esistenziali, per riprendere quanto scriveva T. S. Eliot, c’è un autoinganno che da sempre si coltiva nel ventre pulsante della controcultura e che pure si tenta di celare: il moralismo.
Il moralismo da centro/periferia, ad esempio, nelle pagine dedicate all’ormai famosissimo ragazzino di Torre Maura che si confrontò coi militanti di Casapound: elevato a semidio da abbracciare, nel maelstrom dei ‘buoni selvaggi’ periferici e di contro investito dalle critiche sull’uso del linguaggio dagli snob della ZTL.
Il moralismo tipico, ontologico e manicheo, di chi vorrebbe farci credere che nella terra degli esperimenti di resistenza “dal basso”, viva, prosperi e governi una umanità tendenzialmente consapevole: quella degli spazi occupati, ‘liberati’ dalla speculazione, dal gioco del mercato.
E però, ogni transazione da mercato nero, la sottoscrizione, il concerto libero dalla sottoposizione a regole statali sulla tassazione, sul diritto d’autore e sulla sicurezza dei locali, che invece i luoghi istituzionali per concerti sono tenuti a ossequiare, è la concretizzazione della contro-economia libertaria alla Samuel E. Konkin III e del suo agorismo, fase radicale dell’anarco-capitalismo, piuttosto che libertarismo spicciolo di una qualche sinistra che è e rimarrà sempre e per sempre orgia di assistenzialismo e statalismo.
Il mancato rispetto della proprietà privata, sulla cui sacralità si è edificata la civiltà, è solo semplice indicatore di una coscienza ancora piuttosto sommaria e mutila e pure un po’ paracula.
Tutte le controculture di Remoria infatti si sono incanalate verso la regola aurea del mercato, incontro di domanda e offerta per la gioia del vero unico sovrano: il consumatore.
Stanchi della musica techno? Il mercato, nelle sue spontanee interazioni, ha plasmato la musica virus e i rave. E così il dark. E il gothic. E l’hardcore. Gran parte dei sedicenti anti-capitalisti sono stati inghiottiti dal capitalismo più radicale.
Ed è bene così.