Roma Capoccia
La poesia di Patrizia Vicinelli in una retrospettiva al Macro
Un incanto frenetico di un Maldoror nella suburra, abbacinate dalle fiamme di una cupa bellezza e di ponti distrutti e infuocati, testimonianza di un futuro negato, e per questo perenne
Il cielo, quel cielo, sopra Rebibbia è una pozza di asfalto e di speranze infrante e ha scarsa similitudine con la caciarona e rassicurante gioia delle strisce di uno Zerocalcare qualsiasi: è una feritoia rettangolare che se la guardi con il naso all’insù non vedi altro che azzurrino, filamenti di nuvole e malinconia.
Quel cielo è stato il cordone ombelicale che ha avvinto Patrizia Vicinelli, per quasi un anno, conchiusa claustralmente nel ventre sordo del carcere romano per un affaire di droghe leggere e una latitanza nello spettrale e ramingo nord Africa, non più latitudine del desiderio permanente dei Burroughs e dei Rimbaud ma stella polare di viandanti sul ciglio del precipizio.
“Entrare in carcere” annotò la Vicinelli “è come entrare in un apparato digerente, con lunghe condutture come corridoi che dividono questa popolazione di detenuti”.
Mise in scena, durante quei lunghi mesi di cruda istituzionalizzazione, una rilettura di “Cenerentola”, scardinando la stereotipica figura femminile e andando oltre, desoggettivizzandolo con un piglio alla Julia Kristeva, il linguaggio che la informava.
Straordinaria outsider, poetessa sciamanica che della presenza fisica, del detour vocale e della sperimentazione interiore e sofferta fece altare pagano, bolognese di nascita e di morte, e nel capoluogo emiliano si consumò per aids nel volgere incandescente di una vita in perenne transito, Vicinelli, ricordata dal Macro di Via Nizza nella mostra “Chi ha paura di Patrizia Vicinelli”, nel cui ambito dal 6 febbraio vengono proiettati una serie di filmati di artisti e registi che le furono vicini, come In viaggio con Patrizia e Transfert per camera verso Virulentia, entrambi di Alberto Grifi, ebbe con Roma un rapporto intenso e obliquo.
Al di là della carcerazione e della costrizione istituzionale di cui ci resta, quasi fosse un salmo pentecostale dipinto da Albert Caraco, la intervista in video con la sua compagna di cella, la Vicinelli recitò in quel caotico affresco di romanità alla deriva che è Amore Tossico, di Claudio Caligari: in quella pellicola la poetessa bolognese interpreta, o incarna volendo dirla tutta, la parte della pittrice ed è straordinario il modo in cui la sua fisicità scattante ed eleusina abbia aderito, anche nella fine, anche nella sofferenza, anche nel perdersi dietro ogni linea di orizzonte, ad un piano anarchico di indistinzione tra vita e finzione.
L’eroina, gli amori frenetici, i due figli, il drammatico incidente d’auto, una poesia tonitruante, schizoide, come il titolo della sua opera forse più paradigmatica, Apotheosis of schizoid woman che su richiesta della Vicinelli venne stampata da destra a sinistra con le pagine a ritroso, gli incontri e le collaborazioni, il nervosismo agitato e fluttuante tra quei versi non semplicemente sperimentali, ché si farebbe offesa e pure grave a limitare la potenza espressiva di questa Baccante della poesia restringendola alla grama cantina dello sperimentalismo.
E certo, il Gruppo 63, e il convegno di La Spezia a cui partecipò, il poemetto “Non sempre ricordano”, ma gran parte delle opere uscite poi postume, le letture o i reading, se vogliamo essere pretenziosi, ma pubblicò in vita poco come dicevamo, venendo riscoperta come fosse una reliquia solo dopo la morte: antesignana delle urgenze esplodenti di una Sarah Kane, con cui avrebbe condiviso il progetto di gridare la artaudiana fuga dall’inferno per mezzo della creazione d’arte, e la presenza demoniaca e vitale della voce e della performance di una Diamanda Galas, la Vicinelli si abbeverò a quello stesso sottomondo che fu di Grotowski, di Julian Beck e dell’azionismo viennese.
Un incanto frenetico di un Maldoror nella suburra, come se Lautremont non avesse trovato altra prospettiva che l’eroina e il degrado delle eterne periferie, abbacinate dalle fiamme di una cupa bellezza e di ponti distrutti e infuocati, testimonianza di un futuro negato, e per questo perenne, espressa nei versi “e alla fine della danza più lunga, / l’abbandono e il silenzio / della grandiosa solitudine / lo rendeva eterno”.