Roma Capoccia
Appunti per un'insospettabile geografia industriale di Roma
Jacopo Ibello, nel 2020, ha pubblicato per la Morellini editore un atlante utile per chi vuole immergersi e vedere anche un altro volto della Capitale
Lo puoi ammirare risalendo il viadotto della Magliana, nel quadrante sud di Roma, dove si stende un panorama asfittico e ocra fatto di macchie di vegetazione arsa dal sole, accampamenti spontanei, scheletri di acciaio ossificato da incuria e tempo inclemente.
E’ l’ex oleificio, una sagoma cupa e meccanica invasa da graffiti, cespugli e rovi, aperta come una ferita industriale su due ettari di terreno. Testimonianza di un abbandono, di un fallimento, di un passaggio di epoca e di inquieti spettri della produzione, è divenuto in relativamente poco tempo una occulta meta di pellegrinaggio e di interesse. La geografia industriale è da tempo al centro delle attenzioni di sociologi, storici, artisti, perché convoglia e concentra la dinamicità espressiva di luoghi pensati in funzione del lavoro e della economia e divenuti, nel loro tracollo, templi di una religione dimenticata.
Jacopo Ibello, nel 2020, ha pubblicato per la Morellini editore un pregevole atlante del turismo industriale, Guida al turismo industriale: Roma, città millenaria famosa per le sue rovine, per la maestà augustea dei Fori imperiali, per i tetti delle Chiese che vanno irrorandosi di sangue e argento al tramonto, ha da sempre un rapporto difficoltoso con la propria coscienza industriale.
Appare difficile, anche nelle conversazioni da bar, riesumare il senso della produzione su vasta scala e una imprenditoria classicamente intesa quando riferite entrambe alla Città eterna: la storia, la cultura, la religione, i palazzi del potere e i travet delle amministrazioni, i costruttori edili, le associazioni ma quando poi si vira a parlare di industria si rimane silenti, pensosi, quasi Roma un passato autenticamente industriale non lo avesse.
Ibello risolve questa impasse e snocciola alcune autentiche attrazioni incistate nel cuore della Capitale.
La Centrale Montemartini, nota per la sua verve museale, è meno conosciuta però per i suoi trascorsi; voluta nei primi del novecento dal sindaco Ernesto Nathan, nel generale quadro di una spinta innovativa e modernizzatrice della città, la Centrale era esattamente quanto lascia intendere il nome, una Centrale di produzione di energia elettrica. Non sorprende che proprio alle spalle della Centrale, su via del Commercio, si innalzi la figura mitopoietica del Gazometro, presenza minacciosa e fantasmatica che da sempre popola l’immaginario musicale, filmico e culturale dei Romani. Alto ben 89 metri e in disuso da moltissimo tempo, rappresenta una anomalia metallica in una skyline cittadina che notoriamente è caratterizzata da una marcata orizzontalità: fotografato, ripreso, oggetto di discussioni, Carlo Verdone pensò bene di renderlo silente protagonista di una delle scene più iconiche di “Troppo forte”, quando sul lavatoio trasformato in casetta annuncia alla stralunata attrice americana che il Gazometro nell’arco di due anni sarà sbaraccato e al suo posto “Chiese, Chiese, Chiese”.
Sempre nei pressi di Via Ostiense, il Polo museale dell’Atac, la società partecipata capitolina dei trasporti pubblici: un piccolo museo incastonato nella stazione di Piramide, sul versante del capolinea della Roma-Lido, dove poter ammirare locomotori e vagoni di treni ormai dismessi da decenni e che rappresentano un patrimonio storico-industriale di indubbio fascino.
Non troppo distante, l’ex Mattatoio di Testaccio, divenuto coacervo di una vasta umanità alternativa: ex Centro sociale particolarmente conosciuto per le sue serate, sede della Città dell’Altra economia, punteggiato da autentiche favelas che lo circondano come un morbido abbraccio di disperazione e di anomia urbana e al tempo stesso hub della conoscenza e della innovazione, in una stordente oscillazione di storie, promesse e realtà parallele incastonate le une nelle altre come in un cubo di Rubik antropologico e sociale.
Il libro di Ibello non è soltanto su Roma, e merita di essere letto proprio perché connette città e regioni d’Italia nel nome di una bellezza assai sottovalutata e spesso ritenuta antitetica rispetto a quella ‘classica’: la bellezza dell’industria.