roma capoccia
La città eterna è diventata città della monnezza, dal Grand Tour agli studi di Gibbon
La capitale è avvolta dalla coltre degli incendi, annegata nella marea di rifiuti che la popolano: nulla di nuovo, i problemi erano anche agli occhi di autori come Goethe e Taine. La metropoli sembra condannata da sempre all'indifferenza
Mentre l’aria della Valle Galeria andava ispessendosi, in una coltre nera e rossina di fiamme e fumo, con il Tmb di Malagrotta trasformato in un tizzone, si è riaccesa la polemica, mai sopita, sul ciclo dei rifiuti nella Capitale. Città dalla Tari assai elevata e che pure vede le proprie strade, dalle estreme periferie al centro storico, annegate in un oceano di sacchi gettati alla rinfusa e di cassonetti debordanti, Roma continua ancora oggi ad avere un rapporto scarsamente pacifico con la pulizia urbana: preda di insondabili politiche Nimby e di un ceto politico che negli anni ha preferito solleticare idiosincrasie locali, senza visione complessiva cittadina e senza un progetto anche solo di medio futuro, con una società partecipata come Ama la cui situazione aziendale e finanziaria è stata affrescata in maniera impietosa dalla Corte dei conti pochi mesi fa, Roma sembra condannata in modo inesorabile a replicare un passato che, sia detto senza facili ironie, davvero non passa.
Durante l’epopea del Grand Tour in Italia, che vedeva sciamare intellettuali, letterati e filosofi di tutta Europa speranzosi di ricevere suggestioni dalle reliquie della storia incarnata tra rovine e sommità delle chiese, la città dovette apparire infatti come un conglomerato scarsamente igienico, molto poco curato ma soprattutto di rara, indecente sporcizia.
Nulla di davvero nuovo sotto il sole, o fuori dai cassonetti, verrebbe quindi da dire. Scrive Hippolyte Taine nel suo Viaggio in Italia, “tutto ciò che io vidi dalla vettura durante il tragitto era ributtante; luride straducole pavesate con biancheria sporca o esposta ad asciugare, vecchie costruzioni nerastre, imbrattate da infiltrazioni grasse, mucchi di immondizie, bottegucce, stracci, e su tutto, un’acquerugiola fine e tediosa”.
Analogamente Goethe, colto da una autentica cupio dissolvi non appena giunto a Roma, arrivò a dare libero sfogo a considerazioni dalle quali traspariva il grandioso e patetico contrasto tra il silenzio siderale della città delle rovine e la città contemporanea, rozza, vociante, ma soprattutto sporca.
Ed invero questo contrasto era già all’epoca talmente tanto vivo e pungente da significare suprema ispirazione per decostruire analiticamente la decadenza di Roma.
“Fu a Roma il 15 di Ottobre del 1764, quando sedevo pensoso tra le rovine del Campidoglio, mentre i frati scalzi cantavano il vespro nel Tempio di Giove, che l’idea di scrivere del declino e della caduta della città sorse nella mia mente”, annota infatti Edward Gibbon.
C’è da dire che la recente notizia di un tour virtuale, a bordo di un bus, per gustarsi la riproduzione della maestà della Roma di duemila anni fa, tra intelligenze artificiali e l’ausilio di fragranze, odori e elementi acustici per rendere l’esperienza il più reale possibile, innestata in un contesto sempre più evidente di una città alla deriva, riproduce benissimo quel contrasto che già i viaggiatori del XVIII e del XIX secolo sperimentarono arrivando a Roma.
Nonostante l’idea abbia scatenato prevedibili ironie, seconde forse solo a quelle sulla città in quindici minuti, essa è innestata perfettamente nell’ enigma che si trascina stancamente lungo il corso dei secoli: Roma, città fuori dal tempo, sembra antropologicamente condannata all'indifferenza alla risoluzione complessiva dell’atavico problema della sporcizia e della raccolta dei rifiuti, preferendo concentrarsi sulla contemplazione del proprio ombelico.
Non si assolva frettolosamente il popolo romano, la cui caratura, fatalista e obliqua rispetto allo scorrere delle epoche, è una delle cause del problema, se non altro per essersi scelta, tramite elezioni, delle classi governanti palesemente inadeguate e dal respiro cortissimo.
Almeno però, nei secoli scorsi c’era la scusa dello scarso progresso tecnologico e della instabilità politica tra moti carbonari e tendenze risorgimentali che fecero di Roma laboratorio politico e poi campo di battaglia.
Oggi invece quale sarebbe mai la giustificazione, se non la ontologica svogliatezza delle classi dirigenti e la passiva indifferenza del cittadino medio?