roma capoccia
Contro Roma: da Papini a Trevi, la capitale odiata dagli intellettuali
Città irrisolta, provinciale, autoreferenzialmente chiusa in sé stessa: sono alcuni degli aggettivi che i grandi scrittori italiani hanno riservato alla Capitale
Potrebbe forse stupire scoprire oggi come, nel corso dei decenni e ben prima degli strali bossiani, “Contro Roma” sia assurto ad autentico genere letterario. C’è stato un momento, cronologicamente ampio e non pacificato, in cui una vasta parte del mondo intellettuale, tanto autoctono quanto di altre aree geografiche, individuò in Roma un paradigma stortignaccolo e simbolicamente potentissimo di tutto quel che in Italia sembrava non andare.
“Contro Roma” è il titolo di un agile volumetto di Guido Piovene, nel quale lo scrittore veneto che con Roma si era già confrontato nel suo “Viaggio in Italia” se la prende con la scelta di elevare la città laziale a Capitale dell’Italia tutta: vetrina delle nequizie, delle disfunzioni e dei vizi di una nazione giovane e altamente problematica, Roma per Piovene era città irrisolta, provinciale, autorereferenzialmente chiusa in e su sé stessa, in beata contemplazione del suo passato glorioso. Già decenni prima, nel febbraio del 1913, Giovanni Papini calcando le assi del teatro Costanzi, nel ventre ricurvo e sonnolento della città un tempo imperiale e papalina, aveva con slancio enfatico dato corpo e voce al suo volumetto “Contro Roma”, il cui titolo originario si portava dietro anche un ‘e contro Benedetto Croce’.
Ma “contro Roma” è anche il titolo di una raccolta di racconti curata da Alberto Moravia, tra i cui autori compare di nuovo Piovene, assieme a Maraini, Parise, La Capria, Bellezza; l’idea, invero assai originale di mettere in narrativa i difetti genetici e un certo provincialismo della città eterna, non fu delle più riuscite e i racconti, in senso strettamente letterario, non memorabili. Ma forse la curiosità di un simile testo, forse i nomi che oggettivamente ingolosiscono, fatto è che per Laterza nel 2018 ne è stato pubblicato un upgrade, che assieme ai nomi originari vede ora figurare anche, tra i vari, i contemporaneissimi Trevi, Lagioia, Culicchia, Ciabatti.
Il rapporto degli intellettuali con la Capitale è da sempre travagliato e furente: Roma ha evocato alcuni tra i pensieri più negativi e tellurici alle migliori penne, roba davvero da far impallidire le schiere celtiche dell’estremo settentrione nella fase di massima espansione della lotta contro il centralismo.
“Pigliando Roma, avremmo dovuto smettere subito ogni illusione di patria. D’altra parte Napoli, Palermo Bari cosa c’entravano? La Questione Meridionale in termini spirituali, è: come integrare quelle terre abitate in una patria? Figuriamoci se una capitale inesistente come Roma (solo pus ecclesiastico raffreddato) poteva fornire una risposta” ha scritto Guido Ceronetti, in “Albergo Italia”. Ed in effetti, sfrondando le varie sensibilità e al netto delle derive concettuali individuali, il tratto nerissimo comune nelle critiche feroci mosse a Roma da una vasta parte del mondo intellettuale è proprio questa sua natura sonnacchiosa, oleografica, sporca, oscillante tra mito del passato, senso immanente di metafisica grandezza e volgare arroganza.
Pasolini, che del ventre sordo di Roma fu ramingo e in certa misura prigioniero, scrisse ne Le ceneri di Gramsci “stupenda e misera città che mi hai insegnato ciò che gli uomini imparano bambini”. E come dimenticare la Roma brulicante, pastosa, in certa misura odiosa dipinta da Gadda che in ‘Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana’ utilizza la nota via capitolina come arteria vitale per distinguere tra una Roma connessa al suo passato imperiale e glorioso e una Roma follicolare, da borgata, lumpenproletariat, una Roma disorganizzata, brutta e caotica. Una città in cui la vanità, spesso immeritata, si è resa istituzione, alterando i confini del reale e non potendo ammettere a sé stessa la latente miseria, materiale e morale, che la pervade. Fino a giungere a consistere dell’ultima verità, tragica manifestazione di un agglomerato che è solo simulacro di sé stesso.