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Crazy, il volto della follia artistica al Chiostro del Bramante

Andrea Venanzoni

Nella mostra curata da Danilo Eccher, la suggestiva e austera cornice del cortile di Roma si trasforma in un universo di delirio gnostico. Ed esplode un senso oscuro degno di un romanzo di Lovecraft

Per Platone la follia rappresentava la via privilegiata di accesso al sacro. Per l’arte contemporanea invece la follia è una interfaccia tra percezioni quasi sciamaniche del reale e immaginifici sotto-mondi che brulicano sotto la superficie dell’esistente.

 

Nella mostra curata da Danilo Eccher, “Crazy – la follia nell’arte contemporanea”, la suggestiva e austera cornice del Chiostro del Bramante si trasforma in un universo di delirio gnostico, tra undici installazioni site-specific che rimodulano del tutto la cornice architettonica del luogo e le esplosioni psicocromatiche delle varie opere disseminate tra gli ambienti come mine antiuomo. Ventuno artisti, tra cui Alfredo Jaar, Alfredo Pirri, Gianni Politi, Tobias Rehberger, Anri Sala, Yinka Shonibare, Sissi, Sun Yuan & Peng Yu, con realizzazioni ambientali capaci di trasfigurare l’ambiente e immergere lo spettatore in una esperienza cinematica e quasi trascendentale, nella sua folle discesa nel ventre cavo dell’impossibile. E con buona pace di Deleuze, l’asfissia non sarà scongiurata dal possibile, ma esattamente da queste esplosioni di sensazioni e colori e forme demiurgiche dipanate davanti gli occhi estasiati del visitatore. Antiche porte che espettorano cascate policrome, un torrente di colori psichedelici. Una invasione di sale, finestroni, scale, antri e spazi solitamente inibiti al percorso dello spettatore, un fluido carsico e inespresso di pensieri: la Mostra si trasforma licantropicamente in una estasi Instagram dove, tra un pavimento glaciale che minaccia frana sotto i piedi preoccupati del camminatore silente e una tappezzeria di volo di farfalla e pipistrelli e aurore boreali di pastosa fiamma, esplode un senso oscuro che avrebbe accompagnato per via il richiamo ancestrale di un romanzo di Lovecraft. Qui, fino a gennaio 2023, non è in mostra la follia clinica o la bruttura della reclusione da istituzione totale: è in esibizione furente e accelerata la mediazione pop di una follia intesa come abbandono di qualunque ritenzione sovrastrutturale.

 

Vuoto. Caduta. Psicosi. Abbandono. Saturazione sensoriale. Desolazione cinetica. Il contrasto tra le vivide luci artificiali, la maestosità degli scorci e dei chiostri, e questi eserciti di psichedelia pop, surreale e gotica al tempo stesso producono una vertigine incauta e divertente. Squarci iridescenti sui soffitti, sulle volte inarcate verso un cielo soffuso, bluastro e cangiante come “Alle montagne della follia”, una carpenteriana “cosa” che si plasma e si modifica biomorficamente venendo espulsa dalle carni marmoree del Chiostro del Bramante, senza scampo alcuno per gli estenuati sensi di uno spettatore che si fa ora bambino ora impaurita creatura al cospetto di un nuovo cosmo. Dante 4.0, annunciato da quel tubolare neon screpolato e luminescente che annuncia in inglese “abbi paura dell’enormità del possibile”, con buona pace, lo abbiamo detto, di Deleuze.

  

E non ci sono millepiani, solo: ce ne sono decisamente di più e la schizofrenia del capitalismo che tanto aveva turbato Deleuze e Guattari con la loro psicogeografia aterritorializzante diventa schifofrenia di un mondo artistico che vuole inglobare il reale e non lasciarsi dietro alcun prigioniero. Odori. Afrori. Statue iperrealistiche e cinetiche di individui in giacca e cravatta con al posto delle teste dei massi rocciosi. Camminamenti topoestetici e luminarie da sagra di paese. Perché in fondo, è vero che la pazzia è una benedizione per l’arte, soprattutto ora che in tutto dobbiamo scorgere un qualche canone di insopportabile razionalità. E in queste installazioni, così vivide, vive e morte al tempo stesso, folli nel loro ebbro scatenamento, si scorge la sinuosa affermazione di Antonin Artaud quando nelle sue “Lettere ai prepotenti” annotava “perché un folle è prima di tutto un individuo a cui la società ha impedito di esprimere delle insopportabili verità”.

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