Roma Capoccia
Tra epifania e cenacolo, la Roma di Cristina Campo in un libro
L'arrivo nella città eterna è un trauma per la scrittrice. Il vortice in cui viene travolta la porta a vagheggiare la fondazione mistica di una nuova capitale: le direttrici sono metafisiche, l'urbanistica è un itinerario spirituale
Quando nei primi giorni del settembre 1955 la famiglia di Vittoria Guerrini, ovvero Cristina Campo, si trasferisce dall’amata Firenze a Roma, si tratta quasi di una precipitosa fuga: il padre della Campo, direttore del Conservatorio di Santa Cecilia e fondatore del Collegio di Musica, che per anni aveva fatto da pendolare tra il capoluogo toscano e la Capitale, è riuscito a vincere le forti resistenze di moglie e figlia. L’arrivo nella città eterna è per la Campo un trauma. Annota, in maniera cupamente dolente, “questa città mi aggroviglia le idee”. E d’altronde, lo ricorda Cristina De Stefano in “Belinda e il Mostro – vita segreta di Cristina Campo”, la città, confusionaria, mistica, sporca, caotica è a tutti gli effetti “un enorme ibrido”.
Con magmatica ma determinata lentezza, la Campo esplora il ventre della città, elegge i suoi feudi preferiti, si perde lungo le rive del Tevere all’altezza dell’isola Tiberina, in contemplazione dello scorrere del fiume e dei ponti gettati nel vuoto a congiungere le due sponde, si immerge nel popolare vociare di Testaccio, ama la Passeggiata di Ripetta e il Vicolo del Divino Amore, assurto a “via più bella di Roma”. Inizialmente la famiglia Guerrini vive nell’austera e severa cornice del Foro Italico, a una certa, considerevole distanza dai luoghi romani maggiormente amati dalla Campo. Ma forse proprio questa distanza, unitamente al processo di razionalizzazione dell’aver abbandonato Firenze, gli affetti, le amicizie, i luoghi, gli amori e la vita che aveva costruito in Toscana, la spingono a queste discese nel vortice della Capitale e a vagheggiare la fondazione mistica di una nuova Roma, una “Roma etrusca”, come scrive in una deliziosa e poetica lettera al germanista Leone Traverso, affettuosamente “Bul” per lei.
Il contatto tra Roma e la Campo, come ricorda Elémire Zolla, fu in certa misura epifanico. La città, con le sue immani contraddizioni, la sua natura fantasmatica, intrisa di mitografia e di peso storico, di volgarità popolana e di una urbanistica stratificata come un diadema ispessito dal tempo, colpisce la enorme sensibilità della scrittrice. Complice poi il regalo da parte del padre di una automobile, Cristina riesce a spostarsi lungo le metafisiche direttrici della città.
Non si sposta in modo pacifico. Sarà sempre una guidatrice spericolata e distratta. Causa incidenti, è il terrore degli altri automobilisti e dei pedoni. Discende lungo scalinate e per uno strano scherzo del destino, visto il suo fervente cristianesimo, rischia di morire in un drammatico incidente a ridosso delle mura vaticane. A Roma la Campo costruisce una nuova rete di amicizie e consolida un autentico cenacolo letterario e culturale di raro spessore. Fellini, Bertolucci, Manganelli, Bazlen, Silone tra i più intimi, assieme allo psicoanalista junghiano Bernhard di cui sarà paziente e affettuosa amica, e poi conoscenze più periferiche ma non meno importanti, come quella con Elsa Morante e Maria Bellonci.
Conosce Corrado Alvaro, quando lo scrittore è già profondamente malato. Ma nonostante la malattia, o forse proprio a causa di questa, la Campo si lega emotivamente moltissimo e si affeziona all’uomo. Lo va a trovare quasi ogni giorno, risalendo faticosamente, quasi fosse un rito penitenziale, la Scalinata di Trinità dei Monti, da cui è necessario passare per raggiungere la casa di Alvaro. C’è poi la Roma dei grandi parchi urbani, che la Campo percorre quasi in estasi accecata durante ogni primavera. Villa Celimontana. Villa Borghese. Villa Adriana. E c’è poi l’intensa Roma della spiritualità, del Russicum e dei riti religiosi nelle Chiese, alla ricerca di un profondo senso mistico celato tra i paramenti e i riti slavo-bizantini, che la condurranno lungo il sentiero del tradizionalismo cattolico, in opposizione frontale al modernismo e al Concilio Vaticano II. E c’è poi la dolorosa Roma della fine. Quella quasi claustrale e monastica del suo ritiro nella casa all’Aventino, circondata dai suoi adorati gatti, affaticata dalla malattia che non l’ha mai lasciata per tutta la sua esistenza e dove troverà pace il 10 gennaio del 1977.