Roma Capoccia
Foto, bellezza e decadenza: Francesca Woodman a Roma
La vita in un insieme di scatti e disegni fantasmagorici. Nella capitale produsse gli studi del e sul corpo ispirati al surrealismo promordiale: una delle parti più significative del suo corpus di schizzi
Il corpo sembra evaporare in un flusso oceanico di nebbia e di spettri, come fosse crocifisso nel ventre sinuoso degli antichi canti sospirati dal Maldoror di Lautréamont. Una danza ellittica di antiche memorie, sospese tra decadenza industriale e pareti annerite, oscurate da anni di incuria.
In queste foto, in apparenza così serpentine e fantasmatiche, liminali come il riflesso d’argento di un plenilunio autunnale, c’è la vita, troppo breve ma di rara, prismatica intensità, di Francesca Woodman.
Fotografa, artista e studentessa americana che in Italia, tra Firenze e Roma ha lungamente soggiornato sul finire degli anni settanta.
E che proprio a Roma, per dirla con le parole di Isabel Tejeda in “Ritratto dell’artista come adolescente – Francesca Woodman, strategie dell’impercettibile”, ha trovato decadenza, ruggine e memorie.
Residente nel centro storico, a Via dei Coronari, ma fu a San Lorenzo, nell’ex Pastificio Cecere di Via degli Ausoni, che la Woodman, esistenza tormentata e inquieta morta suicida nel 1981 a New York a soli ventidue anni, produsse una delle parti più significative del suo corpus di schizzi, disegni, diari e soprattutto fotografie: fotografie in movimento, studi del e sul corpo, abbacinanti e carnicini, ispirati a un surrealismo primordiale, lunare e cupamente ctonio, viscerale e popolato di spettri vittoriani.
Ma a spezzare facili determinismi psico-socio-esistenziali, il suo amico George Lange, fotografo, che con la Woodman trascorse settimane in quello stabile e più in generale in Italia, a contatto con la transavanguardia e con la sperimentazione artistica romana, che di recente ha lasciato pubblicare i suoi intimi scatti della Woodman: in queste foto, la ragazza appare sorridere, la si vede spensierata e gioiosa come una ragazza di venti anni, così distante dagli abissi di grigio accelerato e di bianco/nero, da quegli occhi sfuggenti, liquidi, saturnini, che si vedono nei suoi più celebri scatti, nei corpi chiusi e piegati su loro stessi e nelle fumiganti evanescenze tra specchi e trattamenti elaborati della pellicola.
La centralità di Roma, sia in termini artistici sia in termini più prosaicamente esistenziali, nella opera di Francesca Woodman non è seriamente revocabile in dubbio. La capitale fu per la giovane fotografa un laboratorio privilegiato, una serra dentro cui lasciar germogliare sotto la fredda luce della notte la sua arte e il suo sguardo.
A Roma cementò e consolidò amicizie e collaborazioni che rendono oggi la città un tempo eterna prezioso archivio per chiunque voglia confrontarsi seriamente con le creazioni della Woodman.
Lo ricorda, con disincantata e ritrosa lucidità, Giuseppe Casetti, già fondatore della Libreria Maldoror e che ormai con il suo Museo del Louvre a via della Reginella costituisce memoria storica e archivistica della produzione artistica della Woodman cui chiunque sia seriamente interessato ad analizzare l’opera della fotografa americana deve rivolgersi.
Casetti ha contribuito enormemente a far conoscere la Woodman, a partire dalla mostra del 1995 sul rapporto tra la Woodman stessa e la Libreria Maldoror e la altrettanto pionieristica mostra del 2000 al Palazzo delle Esposizioni, con la collaborazione di Achille Bonito Oliva.
D’altronde Casetti conobbe e frequentò sul serio e a lungo la Woodman, in quel crepuscolo degli anni settanta, quando la Woodman consolidò a Roma la sua relazione collaborativa e intellettuale con Stephan Brigidi, insegnante della Rhode Island School of Design che a Roma aveva sede a Palazzo Cenci.
Proprio a questa fondamentale relazione, da cui è scaturita Woman with a Large Plate, una delle foto più iconiche della Woodman, è stata dedicata la ultima, in ordine di tempo, importante e assai partecipata retrospettiva: una esibizione di foto, appunti e schizzi, atta a testimoniare l’inquietudine vertiginosa di una ragazza che nonostante i pochi anni a disposizione ha contribuito, al netto di tutte le frettolose sovrastrutture intellettuali che le vennero cucite addosso post-mortem da una critica baloccata con proprie idee, a rivoluzionare la relazione tra corporeità, senso esistenziale e fotografia.