(foto LaPresse)

Roma Capoccia

Dove Roma si tinge di infinito: riscoprire il Giardino degli Aranci

Andrea Venanzoni

Riconciliarsi con la vita ammirando la maestà della Cupola di San Pietro (contemplata attraverso la serratura arborea). Si perdonano anche i monopattini sfreccianti

“Quando una creatura degna del tuo amore rifiuta di incontrarti in un punto, è perché ti aspetta in un punto più alto”, così Cristina Campo in una delle lettere a Mita. E quel punto, quell’esatto punto elevato come vetta di montagna, sembra davvero essere il Giardino degli Aranci, ovvero Parco Savello che se ne sta placido, inerpicato in quell’Aventino che Marco Lodoli definì “il nostro Tibet”. 

 

Luogo di fiaba, l’Aventino, ove Cristina Campo visse, circondata da verdeggiante silenzio, a pochi passi da quel parco di ottomila metri quadri da cui e dentro cui si scorge il placido senso di una bellezza quieta, distante da qualunque caos – avvolta da un alone di mistero e di pace. Un tempo orto dei frati Domenicani che custodisce l’albero magico giunto a Roma dalla Spagna e che ancora oggi svetta nel chiostro silente della chiesa di Santa Sabina: si narra che l’albero oggi visibile sia germogliato dalle spoglie mortali della originaria pianta, arrivata a Roma per volere di San Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Domenicani, dopo un travagliato viaggio dalla Spagna. L’albero è visibile solo attraverso una apertura ovale nel muro che ne consente una ellittica visione prospettica. E qui, in questo angolo taciturno di Roma, tutto è visione. Tutto è prospettiva. Non distante si rimira la serratura incastonata nella siepe, custodita dal Sovrano Militare Ordine di Malta, con annessa fila di turisti – unico cedimento alla dimensione antropica di certo sciatto turismo. 

 

Perdoneremo anche il monopattino che se ne sta di solito reclinato, come mutante deposto, proprio fuori dall’ingresso, perché la maestà della Cupola di San Pietro contemplata attraverso la serratura arborea è spettacolo che riconcilia con la vita. E dallo stesso Giardino degli Aranci, che mutua il proprio nome dagli alberi di arance amare, la visuale a grandangolo di Roma è una delle più affascinanti che si possano anche solo immaginare. Il cielo grondante di sangue e di argento al tramonto si sposa alla cupola di San Pietro, e dalla terrazza marmorea è possibile scrutare i lineamenti del Tevere, i templi del Foro Boario, il Gianicolo e l’isola Tiberina placidamente adagiati in basso.

 

Il parco, per come attualmente lo conosciamo, venne realizzato nel 1932 dall’architetto Raffaele Vico, utilizzando un terreno appartenuto alla famiglia nobiliare Savelli che qui ebbe per secoli una delle sue principali fortezze. Svetta, all’ingresso principale ubicato in piazza Pietro d’Illiria, una costruzione in sassi che costituisce unica parte residua della originaria struttura appartenuta ai Savelli: e sempre qui, si può ammirare una fontana dai bordi in travertino ricavata da una vasca di granito. Potenza espressiva esoterica, rinvenimento archeologico germogliato nel cuore delle terme romane, con effigie preziosa dedicata al dio Oceano.

 

E proprio Dio, nella sua magnificenza, sembra emergere dall’orizzonte geometrico di questo giardino di vetta. “Il posto migliore per cercare Dio è un giardino” ammoniva George Bernard Shaw. Ed è necessaria severa disposizione d’animo, per questa quiete.  Abituati al caos vorticante di una città accelerata che ci macina le ossa, questo angolo di verde è giardino zen, bosco di meditazione, in cui ogni silenzio diventa melodia dell’infinito dipanato, come gomitolo, dalla terrazza, in uno spettacolo di bargigli di fiamma e di cristallo.

 

Quello stesso spettacolo che si apriva davanti gli occhi colmi di grazia e di bellezza di Cristina Campo, che qui al Giardino degli Aranci si sedeva a meditare e a parlare con Margherita Pieracci Harwell, la Mita delle lettere, e coi suoi bambini. E’ luogo romantico, questo giardino perso nei suoi silenzi, nel senso notturno e profondamente sofferto che fu proprio di Hölderlin quando in Iperione scrisse “vi è un oblio di quanto esiste, un ammutolito del nostro essere, in cui abbiamo l’impressione di aver tutto ritrovato”.

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