(foto LaPresse)

Roma Capoccia

Roma, o dell'Inferno turistico: la sciatteria e il turismo in ciabatte

Andrea Venanzoni

Idee zero e politica ancora meno. La retorica del turismo come petrolio in fondo questo porta: sottosviluppo

Nel turismo non esistono né la vita né la morte, né la felicità, né il dolore: c’è soltanto il turismo, che non è la presenza di qualcosa, ma la privazione, a pagamento, di tutto”, quando Guido Ceronetti in “Un viaggio in Italia” scrisse queste righe non aveva davanti gli occhi l’impaludata consistenza di Via dei Fori Imperiali dove i parapetti di cantiere ormai costituiscono snodo essenziale del panorama, o i plotoni meccanici di monopattini parcheggiati con sadico gusto a impallinare la maestà del Colosseo.

 

E non poteva sapere, ma certo in cuor suo, con sapienza veggente, già prefigurava con scoramento, che qualche decennio dopo i camminamenti, le scale marmoree e le angolazioni prospettiche capitoline da cui contemplare la bellezza cittadina sarebbero stati invasi da spazzatura e soprattutto occlusi da transenne di ogni ordine e grado. Transenne spesso sporche e arrugginite, sormontate da allori di nastro bicolore, a impedire il passo e a segnalare, segnalare solo, non certo a risolvere, pericoli; voragini, buche, smottamenti di antiche piastrelle, rischi di crollo. Alcune di queste transenne rimontano ad epoche geologiche ispessite dalla indifferenza istituzionale, divengono parte integrante del tessuto cittadino, e degli spazi archeologici. 

 

Turisti spagnoli, in Campidoglio, invece di fotografarsi immortalando la grandezza dei Fori si scattano una fotografia-ricordo davanti la transenna sulla viuzza che conduce verso Via della Consolazione. Non può stupire che questo grado di sciatteria attiri a sé una forma di turismo transumante, incolonnato in ciabatte e canotte alla Bombolo.  Attorno al peregrinare circolare del Colosseo o nella coda dantesca che si dipana fuori dai Musei Vaticani, la forma-tipo del turista è quella del consumatore di yogurt, che pranza con cappuccino e pizza margherita congelata alle undici di mattina e che, quando va bene, oltre a farsi il pediluvio nelle fontane cittadine, porta in dono alla città venti o trenta euro. La retorica del turismo come petrolio in fondo questo porta. Oleose macchie fangose di nero pece che si spandono sinuose lungo la città, fino a inghiottire ogni Chiesa, ogni monumento, ogni rovina, ogni Museo.

 

E no, non è colpa di gentrification o di affitti brevi, sempre chiamati in causa quando si tratta di escogitare fumosi alibi per negare l’incapacità di progettare una dinamica di attrazione di un turismo più alto. E si badi; per “alto” non si intende classismo, o ricchezza, dato che i ricchi spesso sono più volgari del ragioniere indeciso se farsi i conti di fine mese o trasmigrare per una settimana da Copenaghen a Roma.

 

La trasformazione del centro in un non-luogo privo di identità non è cosa poi così diversa dal far sprofondare tutta la città in un parco giochi per transenne e scale mobili sfasciate. E se poi uno vuol trincerarsi dietro bizantinismi semantici votati all’anglismo, la sostanza non cambia. In quanto agli affitti brevi, considerati colpevoli di attrarre, gira e rigira l’accusa è questa al netto delle preoccupazioni dei loro concorrenti albergatori che ne fanno punto di concorrenza, dei soggetti irrispettosi della città, è il classico caso del cane che si morde la coda: verrebbe infatti da chiedersi per quale motivo quel genere di turismo, sciatto, di massa, volgare, povero nel senso di scarsa attenzione a storia e bellezza, sia così attratto dalla Capitale, e per quale motivo contribuisca ad aumentare il caos cittadino.
Non sono gli affitti brevi a creare turismo volgare, è questo turismo irrispettoso e sciatto, spesso solleticato dalla comunicazione istituzionale, a creare certe richieste cui i proprietari rispondono come meglio credono e ritengono.  Il turismo, questo turismo, è davvero vagabondaggio, senza scopo, come annotava Guido Morselli, e le file interminabili e ruminanti di visitatori si rendono serpentoni di carne schiamazzanti che si lasciano dietro scie di cartaccia. D’altronde, penseranno, se nessuno pulisce, se ci sono aiuole lerce proprio davanti il Colosseo, perché privarsi del gettare bicchieri di plastica al suolo, segno della propria presenza nella Città un tempo eterna?

Di più su questi argomenti: