Roma Capoccia
Tra le lapidi del cimitero acattolico, dove la morte si fa poesia
A Testaccio riposano grandi nomi del mondo intellettuale, da Antonio Gramsci a Shelley, ma quei personaggi dai nomi all'apparenza meno altisonanti, come Juan Rodolfo Wilcock, riserbano storie tanto strazianti quanto poetiche
Ripido come una salita sul Monte Athos, in un silenzio arcuato da monastero vestito di marmo e di muschio, il cimitero acattolico è col passare degli anni divenuto per i turisti visita irrinunciabile. Rettangolo di lapidi e tombe che se ne sta a Testaccio alle spalle della Piramide Cestia, filamento cerimonioso di giardini dipinti tra fiori, erba millimetricamente curata e gatti costituisce uno dei luoghi più misteriosi e belli di Roma. Belli come solo la morte sa certe volte essere. Realizzato nel cuore montante del Grand Tour, quando per molti intellettuali, letterati e uomini d’istituzione stranieri soggiornare a Roma era considerato obbligo quasi morale, il cimitero acattolico si rese necessità per tutti quegli individui che non volevano, o non potevano, per confessione religiosa di appartenenza o per aver compiuto gesti che non ne consentissero l’inumazione nei cimiteri cattolici, si pensi ai suicidi, essere sepolti nei cimiteri cittadini. E se per molti questo è luogo obbligato di visita per la presenza delle tombe di Gramsci, di Camilleri, di Gadda, di Lussu, o anche di Keats e Shelley, il vero cuore d’ombra e di diamanti ctoni del cimitero se ne sta disperso per nomi in apparenza meno altisonanti ma dalle storie tanto strazianti quanto poetiche.
Adagiata in un sonno trascolorato in riposo eterno, a pochi giorni dalle promesse nozze, il corpo avvolto in un corpetto tenue e fiori tra le mani, Elsbeth Wegener Passarge sembra salutare il viandante che abbia a incamminarsi a pochi passi dalla sua eterna dimora, con il tettuccio spiovente, su un sentierino sterrato nella parte alta del cimitero. Giovanissima ragazza di origini tedesche, forma perfetta nel suo marmoreo candore di un amore in apparenza infranto dalla morte, ma sublimato nella bellezza del tratto scultoreo. Meraviglia poetica scolpita dal suo fidanzato, scultore che in questa opera, strappando la sua dolce amata al gelido abbraccio della Mietitrice, ha così officiato un matrimonio che sembrava reso impossibile dagli eventi.
Una delle prime tombe che accolgono il visitatore è quella del recentemente scomparso John Lindsay Opie, raffinato studioso delle religioni e dell’arte. Uno tra i massimi esperti di icone, inquieto viandante sul delicato crinale della spiritualità, che fu legato a Elémire Zolla da comuni interessi di ricerca e a Cristina Campo, in una profondissima e celestina amicizia testimoniata anche da una intensa corrispondenza, riportata in appendice nel volume “Cristina Campo – la disciplina della gioia” (Pazzini), curato da Maria Pertile e da Giovanna Scarca. Ebbero, lui e Cristina Campo, come comune amica la nobildonna russa, in esilio, Varvara Dolgoruki, e questa frequentazione, proprio negli anni in cui la poetessa frequentava il Russicum e lo splendore degli incensi e delle icone e che la avrebbe portata a comporre i versi sublimi di Diario Bizantino, si tradusse nella conversione di Opie all’ortodossia. Quando Opie decise di replicare alla lettera che il grande scrittore Solženicyn aveva inviato al III Concilio della Chiesa ortodossa russa, la sua ampia missiva venne tradotta, con stile superbo, proprio da Cristina Campo. Dapprima ammesso alla Chiesa ortodossa russa in esilio a Roma, Opie volgerà poi lo sguardo verso la tanto amata Costantinopoli, e al suo Patriarcato, arrivando alla decisione di farsi battezzare sul Monte Athos che negli anni precedenti era stata meta di pellegrinaggi e di crepuscolari riflessioni.
All’Acattolico riposa anche lo scrittore e poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, i cui notturni capolavori come “La sinagoga degli Iconoclasti” o “Il libro dei mostri”, pubblicati da Adelphi, se ne stanno obliqui rispetto lo scorrere di una letteratura che sembra invece esigere oggi chiassose luci della ribalta. Figura appartata e di margine, anche lui come Opie legato a Cristina Campo, Wilcock venne a Roma dall’Argentina, e pure a Roma si trovò ingabbiato e costretto, tanto da aver preferito la dimensione provinciale di Velletri, prima, e poi della Tuscia viterbese. Per poi tornare a Roma, nel suo riposo eterno.