Roma Capoccia
Passeggiata a Trastevere tra intelligenza artificiale e arte
Nel palazzo WeGil, l’ex casa della gioventù italiana del littorio, arriva la mostra Re: Humanism che analizza il rapporto anche filosofico tra creatività e IA
“Dobbiamo pensarla come quando è nata la fotografia. Prima non c’era e l’arte era quasi esclusivamente pittura e scultura. Poi sono arrivate le immagini fotografiche e, con esse, un nuovo linguaggio”. A parlare è Daniela Cotimbo, curatrice di Re:Humanism 3. Sparks and Frictions, la mostra collettiva dedicata al rapporto fra arte e intelligenza artificiale, inaugurata ieri a Roma. Si tratta di un premio nato nel 2018 e giunto alla terza edizione e quelle che potrete vedere sono le prime dieci opere, compreso il vincitore, che in questa edizione è Zoophyte, installazione di Joey Holder dedicata alla riscoperta della criptozoologia, una pseudoscienza che si occupa di recuperare storie su animali leggendari. In questo caso, le creature misteriose degli abissi marini.
Anche l’arte, dunque, non può più fare a meno della Ia? “Non necessariamente, si può continuare a fare arte senza farsi coinvolgere dall’algoritmo: gli artisti che ne fanno uso sono ancora una nicchia nell’arte contemporanea. Ma dato che l’Ia è entrata ormai nella nostra vita e tocca molti aspetti dell’esistenza, se l’arte racconta ed è connessa con la vita, allora dovrà fare i conti con tutto ciò. Dove questo poi possa portare è difficile dirlo. Ma si tratta di un linguaggio nuovo, dove c’è ancora molto da scoprire”, sostiene Daniela Cotimbo. E del resto, tornando all’esempio di prima, quando videro la luce le primissime immagini riprodotte su pellicola (1839), chi avrebbe mai detto che un secolo e mezzo dopo saremmo andati a vedere Helmut Newton, Steve McCurry o Salgado come si va a vedere Cezanne, Picasso e Monet?
La mostra è interessante anche alla luce dei recenti fatti di cronaca, con le “false” immagini del Papa e di Trump riprodotte dall’algoritmo e la decisione, poi ritrattata, di vietare in Italia Chat Gpt. “Quelle immagini taroccate mi hanno molto divertita, alcune erano davvero belle, a livello estetico è impossibile distinguere il vero dal falso. Ma qui deve arrivare il senso critico delle persone. Viviamo da tempo nell’epoca della post-verità e le immagini si falsificavano anche prima, pensiamo ai fotomontaggi e a photoshop. Vietare per legge penso sia sempre la strada sbagliata. Ma quando ci poniamo davanti a un’immagine dobbiamo sempre chiederci: da dove arriva, chi l’ha realizzata e se può essere un fake oppure no…”, osserva Daniela Cotimbo.
Dando uno sguardo alle opere, Farming di Federica Di Pietrantonio è un cortometraggio che parte da una ricerca realizzata attraverso l’analisi di esperienze degli utenti su piattaforme virtuali di videogiochi, mentre con The Martian Word for World is Mother di Alice Bucknell possiamo dare un’occhiata a come sarebbe la vita sulle colonie su Marte, pensando a un futuro alternativo sul pianeta rosso. Mythmachine di Sahej Rahal ha dato vita a una creatura post umana poliforme in movimento con cui si può interagire attraverso il suono della voce, mentre Ciò che resta di Pier Alfeo tocca il tema dell’inquinamento acustico degli oceani attraverso immagini virtuali di cicatrici umane e creature marine. Mara Oscar Cassiani, invece, ha analizzato lo sviluppo delle relazioni e interazioni sentimentali e sessuali tra utenti e creature nate da Ia. E’ possibile innamorarsi e avere una relazione, anche di lunga durata, con un essere umano virtuale, come nel film Her? E quando l’utente si stanca, che fine fanno questi umanoidi?
Non è una mostra solo di immagini e visual art. In Bite Off More Than You Can Chew Ginevra Petrozzi ha analizzato il suo passato, presente e futuro attraverso le macchinette per i denti che ancora porta: con i dati l’algoritmo ha previsto cosa le accadrà nel prossimo futuro e lo spara in loop su un tabellone elettronico.
Bella anche la location: siamo a WeGil, l’ex casa della gioventù italiana del littorio (Gil), splendido edificio razionalista realizzato da Luigi Moretti nel 1937, restituito restaurato alla città nel 2017 dopo anni di abbandono e diventato un importante hub culturale della Regione Lazio, proprio davanti al cinema Sacher. Fino al 18 giugno a WeGil, Largo Ascianghi 5, Roma.