Roma Capoccia
Dove tutto è sacro: 1937, il grand tour di Simone Weil a Roma
Le camminate per la capitale, i gelati, i monumenti e le chiese. “Se il paradiso somiglia a San Pietro durante i cori della Sistina, val la pena di andarci”
Nel maggio del 1937, una giovane Simone Weil è in treno, diretta da Firenze a Roma: a tenerle compagnia, nella precedente tratta tra Milano e Bologna, un austero prelato conosciuto nel vagone che le impartisce teneramente una lezione sulla Stimmung, e da cui si sente consigliare, una volta giunta nella capitale, di recarsi presso la Chiesa di Sant’Anselmo, all’Aventino, per godere della liturgica solennità dei cori gregoriani. Nonostante tema la città, da sempre croce e delizia dei letterati europei che ne hanno tratto sensazioni contrastanti, annegati tra stordente bellezza lirica e mitografica e squallore urbanistico e organizzativo, la Weil si innamora subito dell’Urbe. Alloggia in un piccolo albergo in centro e si organizza, mappa alla mano, per visitare ciò che con il poco tempo a disposizione reputa essenziale vedere. Prima di scrivere ai genitori tornati in Francia, lascia decantare tre giorni e mezzo. Si immerge nelle atmosfere popolane, in quel rigoglio di bonaria spontaneità romana che pure sarebbe assai piaciuta, anni dopo, alla figura a cui maggiormente si deve la conoscenza dell’opera weiliana in Italia, Cristina Campo.
E con Cristina Campo, la Weil condivise, in maniera del tutto involontaria, forse, ma significativa stante la carnicina consonanza lirica e di sensibilità, l’amore marmoreo per il canto gregoriano tra le lignee panche di Sant’Anselmo. E viene da pensare a Cristina Campo, che decenni dopo si sarebbe recata in quello stesso luogo, non sapendo che lì, esattamente lì, Simone Weil si era estaticamente inginocchiata avvolta dall’oceano di incensi e liturgia e neumi, nella solenne gravitas della recitazione sacrale del canto gregoriano. La Roma di Simone Weil è una Roma profondamente, austeramente sacra. Anche le sue vestigia, le rovine, la bellezza archeologica che si dipana come uno spartito di storia e di poesia, lo stesso mito di Roma vengono filtrati dagli incontri e dalle sincronie che rimandano sempre alla sfera celeste.
Risalendo i Fori, diretta al Palatino di cui avrebbe ammirato l’infinita consistenza e quasi smarrendocisi dentro, si imbatte in un manifesto che annuncia canti liturgici del coro della Chiesa cattolica greca di Zagabria, che si sarebbero tenuti al Teatro Adriano. Visita il Colosseo, e sempre a piedi si inerpica poi sull’Aventino, e raggiunge proprio in tempo per l’inizio di una funzione liturgica l’abbazia di Sant’Anselmo, da cui è emotivamente conquistata. Quella sera stessa, senza risparmiarsi, e non mancando di imbattersi in una certa disfunzionalità del trasporto pubblico capitolino, raggiunge l’Adriano e ammira i cori che suscitano nel suo cuore sensazioni di sontuosa bellezza bizantina e di sacro ucraino. Il giorno seguente, Simone Weil sperimenta in Vaticano una delle sensazioni più intense dal punto di vista emotivo; una solenne Messa di Pentecoste sottolineata dalle voci bianche della Sistina, in una atmosfera ieratica e potentissima, in un ambiente di raro pregio artistico, con la musica, i simboli sacri, la devozione e la commozione dei fedeli, in grandissima parte popolani inginocchiati.
La Weil ne ricava l’immagine di un’opera d’arte totale di matrice wagneriana e di un ponte per l’orizzonte del paradiso. “Se il paradiso somiglia a San Pietro durante i cori della Sistina, val la pena di andarci”, commenta lei. Alla fine della cerimonia, si reca presso l’esposizione della Stampa cattolica e poi per i Vespri ancora a Sant’Anselmo. L’immersione nel sacro è totale, intermezzata da excursus culinari nelle trattorie romane, che la Weil adora, con incontri e chiacchierate con popolani, giovani fascisti, letterati che le capita di incontrare. Prosegue le sue giornate mangiando gelati, raggiungendo Villa Borghese, altra grande passione condivisa con Cristina Campo, osserva il modo in cui il piccone fascista ha trasformato la parte centrale della città modellando ciò che Emilio Gentile decenni dopo avrebbe definito ‘fascismo di pietra’, fa amicizia con il figlio di un importante dignitario del Regime, torna al Colosseo, di notte, ammirandolo al chiaro di luna. Il giorno seguente, parte. Alla volta dell’Umbria.