Roma Capoccia
Roma come patria universale nella poesia di Puškin
Nel mondo si contano circa centonovanta statue dedicate al padre della lingua russa moderna. Ma è alla capitale che il poeta ha dedicato le maggiori attenzioni
Nel cuore di Villa Borghese, nel placido scorrere del verde che si perde tra sentieri e camminamenti e nella tiepida indifferenza di runner e famiglie in transito, si staglia il monumento al grande poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin. La statua, inaugurata nel giugno del 2000 dagli allora sindaci di Roma, Rutelli, e di Mosca, Luzhkov, e da Vladimir Putin, è forse uno dei simboli più sontuosi e attuali di un tradimento culturale e concettuale consumato in danno della bellezza oscura e lirica dei versi del poeta stesso. E rappresenta, nell’onda montante di conflitti la cui matrice è vocazione imperiale, l’impiastricciata burocratizzazione dello spirito di libertà che sempre anima la penna, e la mente, dei poeti. Nonostante nel mondo si contino circa centonovanta statue dedicate a quello che senza tema di smentite può essere definito il padre nobile della lingua russa moderna, è a Roma, intesa nel suo scintillante senso mitografico, che il poeta dedicò le maggiori attenzioni e la più grande cura, fino a ingenerare un autentico cordone ombelicale onirico di amore e senso di libertà che avrebbe pervaso la letteratura russa nel suo insieme. Roma come patria universale, come manifestazione di un destino di senso e di civiltà. “Ho il cuore d’un romano; la liberta m’arde nel petto in me non s’è assopito lo spirito del grande popolo”, scrive Puškin in “A Licinio”.
A differenza dei grandi intellettuali europei per cui Roma era fulcro di un più ampio percorso condotto lungo le tappe del Grand Tour, e da cui non venivano estromesse le caratterizzazioni, le sensazioni, le passioni, gli aromi delle altre città d’Italia come Firenze, Napoli o Venezia, per i russi Roma era faglia di destino, sogno di porpora e di celestino che con la sua storia trascolorante nel più puro mito diveniva e si rendeva epitome dell’universo.
E questa solenne endiadi che in Roma coglieva l’ombra scintillante della mistica del mondo, traboccante come arazzo di altre epoche, unita alla libertà più responsabile e piena, venne ben colta da Dostoevskij che nella sua prolusione su Puškin tenuta a Mosca nel giugno 1880 ricordò questa vocazione della cultura russa alla universalità, come era stato per Roma. Si capisce come un simile discorso possa ingolosire mani desiderose di trasformare quella universalità in vocazione imperiale, soprattutto quando le armi sul campo hanno necessità di essere corroborate dalle armi dello spirito e della battaglia sulla e nella cultura. Eppure nulla potrebbe essere e suonare come maggior tradimento rispetto la cristallina chiarezza di una cultura vissuta come civiltà di unificazione e di armonia.
Perché quando Puškin in certa misura inaugura un autentico filone aurifero di una Roma esaltata come mondo-sogno, paradigma di emancipazione e libertà, il vento che soffia per l’Europa è quello dei lumi della ragione, della forma ctonia del romanticismo letterario e del processo, inarrestabile e inesauribile, del nation-building dei popoli liberatisi dal giogo napoleonico. “Libera crebbe Roma” annotò il grande poeta già in giovane età, seguito da molti altri letterati russi come quel Ryleev che arriverà a scrivere “Roma, signora dell’universo, / terra di liberta e di leggi!”, oppure Glinka, Katenin e К juchel’beker che trasporranno nelle loro opere una figura metafisica di Cicerone russo, concepito come eroe patrio, a simboleggiare, secondo quanto aveva annotato a proposito della Rivoluzione francese Karl Marx, una simbiosi semantica e simbolica tra l’illuminismo, lo spirito rivoluzionario e il mito di Roma.
Nella lirica “A Licinio”, un sedicenne Puškin si rivolge alla figura storica a cui il poema è dedicato come a un caro amico, un familiare quasi, lasciando irrompere nella letteratura russa la presenza di Roma come elemento di costruzione della propria specifica identità. Ma riferimenti alla cultura romana saranno una costante nel pensiero e nella sensibilità lirica puškiniana, tanto da ritrovarne la evidente eco in “Una piccola città” e nella epistola “A Batjuškov”. Sempre, sempre nel nome della libertà.