Roma Capoccia
Evocare l'uragano, il filosofo incandescente Andrea Emo e Roma
Le lezioni con Gentile alla Sapienza, l’amicizia con Alberto Savinio e l’amore per la speculazione filosofica, senza che però i suoi pensieri vengano mai pubblicati. Il suo rapporto con la Capitale non fu solo esistenziale, ma metafisico
Lo slancio turrito di un chiarore fiabesco si irradia verso il cielo azzurro, a sottolineare la forma del palazzo incuneato dentro via dei Vecchiarelli: è palazzo Emo Capodilista, così rinominato dopo che i patrizi veneti lo ebbero acquistato ai primi del novecento, per farlo poi restaurare a metà degli anni cinquanta. Già palazzo Vecchiarelli, abitazione di cardinali e nobili romani, il palazzo fu rifugio capitolino e paradiso in margine di Andrea Emo, il filosofo appartato i cui pensieri incandescenti vennero alla luce solo dopo la sua morte. Andrea Emo fu discendente di una famiglia che già nel nome, Emo Capodilista, sintetizzava due rami della storia veneta, i Capodilista che a Padova hanno lasciato importante segno visibile nei Musei Civici agli Eremitani e nel palazzo di famiglia, e gli Emo che a Venezia segnavano la diretta discendenza con vescovi e ammiragli che particolarmente si erano distinti per riaffermare il dominio della Serenissima.
Di lui ci rimane un bel ritratto dipinto da Alberto Savinio, che gli fu amico. In gioventù, Emo trascorse molto tempo nella Città Eterna, qui giunto per seguire le lezioni di filosofia che Giovanni Gentile teneva a La Sapienza: idealismo e attualismo segneranno l’interesse del patrizio veneto che inizierà a coltivare un umbratile amore per la speculazione filosofica, vissuta con contegno squisitamente interiore e senza lasciare che alcuna riflessione vedesse la luce esterna della pubblicazione. Una sistematica congiunzione dell’atto di vivere con quello di pensare, fino a consistere davvero di quella fiamma d’un ultimo presente evocata da Carlo Michelstaedter. E nonostante la grande stima nutrita da Ugo Spirito per l’allora giovane filosofo, e nonostante i tentativi di Spirito di convincere l’amico a pubblicare almeno in parte i suoi scritti, Emo tenne il punto, rimanendo saldo nella sua medievale consegna di silenzio. E riguardando i lineamenti turriti del suo palazzo romano, viene da dare ragione a Nicolás Gómez Dávila quando scriveva “il supremo aristocratico non è il signore feudale nel suo castello, ma il monaco contemplativo nella sua cella”.
La filosofia di Emo, così anticipatoria di certi postulati heideggeriani, colma di dionisiache riflessioni situate lungo il crinale di uno spazio fuori dal tempo e del volto di luce e tenebra d’un dio negativo, quasi vertiginosa nella sua impenetrabilità, sarà riscoperta solo dopo la sua morte da Massimo Cacciari, Massimo Donà e Romano Gasparotti. E il legame tra Emo e la capitale non fu soltanto fisico ed esistenziale, ma intensamente metafisico. Perché in quel bargiglio di fuoco che arse Giordano Bruno a Campo de’ Fiori egli vide il trascolorare del senso stesso del Rinascimento, in una purpurea vampa di magismo e di eros che sembrava anticipare certe languide notazioni di Ioan Culianu, già allievo di Mircea Eliade, sulla magia rinascimentale e sulla figura del nolano. E via dei Vecchiarelli è l’indirizzo da cui parte la prima missiva indirizzata a Cristina Campo.
È il febbraio del 1972, ed Emo, a ciò convinto dalla moglie, scrive all’autrice de ‘Il flauto e il tappeto’, volume uscito pochi mesi prima per Rusconi: le esprime il suo radicale apprezzamento per quel testo così profondamente fuori dalla risacca di un tempo mediocre. Tra quelle potenti righe, si scorge la forma del riconoscimento della sublimazione del sacrificio e della sacralità dell’opera d’arte, sospinta dalla musica, autentica coscienza dello scorrere del tempo. Ne nasce una intensa amicizia, intessuta di incontri nell’abitazione di Emo, di lettere e di lunghissime telefonate. In una lettera del maggio 1976, Emo snuda la consonanza magneticamente anti-moderna, e attualissima in questo presente di ideologizzazione dell’alta tecnologia, che lo lega a Cristina Campo, osservando “queste filosofie moderne sono proprio quelle che hanno evocato l’uragano… tutte le filosofie recenti o di mezza età che hanno esaltato l’uomo, la sua potenza e sovraumanità, sono quelle che non offrono il loro aiuto per ritrovare la speranza”. Con lievi mani, lontano dall’umanità per rimanere, davvero, umano.