Una scena del film "L'imbalsamatore"

Roma Capoccia

Storia di Domenico Semeraro, il nano tassidermista di Termini

Andrea Venanzoni

Il racconto tragico dell’imbalsamatore della stazione romana, già messo in scena nel capolavoro di Matteo Garrone. Alla ricerca di una impossibile felicità, fra amore e ossessione

L’ossessione non è che la ricerca di una impossibile felicità. E lui, Domenico, non fa altro che percorrere le ombrose periferie della Stazione Termini, in quel caleidoscopio di luci, tenebra, miseria e urgenze viscerali, guardandosi attorno per trovare un volto dentro cui specchiare la solitudine della sua anima. Domenico è quarantenne, ma piccolo. Piccolo davvero tanto. Non nel senso infantile della mancata personalità, irrisolta, ma del fisico. È un nano, come titoleranno poi con scarso tatto le cronache dell’epoca. Siamo sul finire degli anni ottanta, nella rugginosa Roma dell’eroina e delle derive esistenziali. Domenico è una persona brillante, colta, di gusti estetici notevoli, si perde per atelier provando abiti ricercati, degusta vini, ma si tiene lontano dalla spicciola mondanità. Perché quella ferita, quel senso di smarrimento e di inadeguatezza inflitto dai suoi centotrenta centimetri lo fa sentire fuori posto. E da laggiù il mondo appare sempre irto e ghiacciato, come una inospitale montagna di asfalto e di sorrisi mai rivolti a lui.

 

Ha personalità artistica, e non gli manca l’estro. Segretario dell’Istituto cinematografico Rossellini, professore in un istituto tecnico, ha qualche trascorso nel cinema, arte in cui si è cimentato come controfigura di un bambino vittima nel cupissimo “Non si sevizia un Paperino”, di Lucio Fulci, la cui sceneggiatura per ironico e junghiano caso è ispirata alla reale vicenda di una lontana parente di Domenico. Domenico di professione è tassidermista. Detto in altri termini, imbalsamatore. E questo sarà il titolo del bellissimo e ctonio capolavoro di Matteo Garrone, liberamente ispirato alla vicenda, e con uno straordinario Ernesto Mahieux nella parte di Domenico.

 

Domenico imbalsama animali. Di ogni specie e grandezza. In alcune foto lo si vede steso su pelle d’orso o a cavallo di un leone, in una sorta di epifania fantastica e trash di un mondo da cui si sentiva, per comprensibili ragioni, espulso. La solitudine, però, gli macina le ossa. Gli spezza il fiato. Gli fa apparire l’esistenza una discesa nel gorgo bluastro di una notte senza stelle. Sembra di veder riecheggiare le parole di Testori a proposito di Pasolini e delle sue fughe notturne a caccia di ragazzi di vita. Anche Domenico, come Pasolini, si rivolge al mercato glabro delle notti di Termini. Carne per fugaci amplessi notturni, tutti spezzati dall’incantesimo chiamato vita che ad ogni alba si riavvolge nella sua miseria. Finché nell’esistenza di Domenico non entra un ragazzo, Armando.

 

Domenico non se ne infatua semplicemente. Ma lo eleva sul piedistallo dell’anima gemella, di quello specchio che rende l’essere umano indiviso. Armando è giovane e confuso. Domenico, lentamente, ne diventa padre, amante, mecenate. Lo copre di regali e di attenzioni, lo prende a lavorare nel suo laboratorio di via Castro Pretorio, gli trasmette il proprio sapere professionale, lo cinge affettuosamente sì ma anche morbosamente. E accade che Armando si innamori di una ragazza, Michela.

 

Domenico non può accettarlo, ma fa buon viso a cattivo gioco. Prende a lavorare come segretaria anche Michela. Ne origina un surreale, ombroso ménage à trois punteggiato di sofferenza, ricatti, morbosità, foto scattate durante l’amore, tentativi di fughe e atti persecutori, con Domenico che accecato dalla paura di restare ancora una volta solo citofona per intere notti a casa di Armando. I regali, l’eroina, l’affetto di Domenico non sembrano più bastare. L’amore tra Armando e Michela lo chiama fuori. Lo relega in un angolo dove nessuna luce potrà mai brillare. Armando questo lo intuisce. Capisce che Domenico non li lascerà mai in pace. Mai. E una sera, una di quelle tragiche sere che sembrano diventare snodi narrativi perfetti, Armando finisce per strangolare Domenico, con il suo stesso elegante foulard. Per difesa, dirà poi, perché Domenico aveva impugnato uno strumento di lavoro simile a un bisturi. Una storia che termina senza alcuna redenzione. In carcere, per Armando. E lungo la Prenestina, per Domenico, il cui corpo sarà rinvenuto in una discarica di Corcolle, nell’aprile del 1990.

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