Roma Capoccia
Città d'argento in una sfera di diamante: Musil a Roma
Le due visite alla Capitale del grande romanziere austriaco che percepì la città eterna estranea al suo senso estetico e concettuale, scarsamente grandiosa, e di certo lontana da qualunque mitografia neoclassicista
Dovette apparirgli simile a una epifania madreperlacea, con la luna a picco sulle immote acque del Tevere, specchiata di tre quarti nel ventre cavo di Castel Sant’Angelo. E solo ripensandoci anni dopo, nel rileggere un passo centrale de ‘Il piacere’, di D’Annunzio, Robert Musil riconobbe nel peso di quel ricordo, silenzioso e glaciale, Roma, ‘città d’argento chiusa in una sfera di diamante’, la città che aveva dolentemente visitato anni prima. E c’è un pudore, nutrito di silenzio claustrale, nel definire, descrivere e concepire i soggiorni romani del grande romanziere austriaco. Perché, a ben vedere, oltre una via a lui titolata, la memoria di quel viaggio si è vestita di un senso schivo che se ne sta obliquo rispetto lo scorrere della storia, e dell’esistenza. Perché con l’eccezione degli studi specialistici, Musil a Roma fu meteora quasi fastidiosa per certa mitografia. A differenza di molti altri intellettuali che tra fine settecento e tutto il corso dell’ottocento, da Goethe a Taine, erano sciamati su Roma per riceverne essenziali e abbacinanti vibrazioni, e che pure della città un tempo eterna avevano conservato un ritratto interiore ambivalente e oscillante tra sontuosa bellezza e sciatta volgarità, Musil si perse nella mirabolante contemplazione del piccolo, del minuto, dell’apparentemente insignificante.
Musil visitò Roma due volte. Una prima nel novembre del 1910, dopo un tortuoso viaggio che lo condusse prima a Budapest, poi ad Ancona e infine a Roma, ove rimase per cinque settimane. La seconda visita musiliana coprì un arco temporale più esteso, aprendosi dal settembre 1913. L’occasione del lungo viaggio, lo scrittore passerà prima per Trento, poi ad Anzio e solo infine a Roma, non fu del tutto piacevole: Musil avrà da compiere il disbrigo delle pratiche burocratiche per perfezionare la separazione matrimoniale di quella che sarà poi sua moglie, la pittrice Martha Musil, da Enrico Marcovaldi. E per paradosso, è assai più vivo il ricordo della presenza di Martha, a Roma. Allieva di Giacomo Balla, si distinse per gusto e ingegno; pittrice, traduttrice e ritrattista, il suo legame con Roma fu talmente forte che qui dopo l’esilio ginevrino in piena guerra tornò a vivere i suoi ultimi anni e qui morì, a via Settembrini, nel 1949, sette anni dopo essere rimasta vedova di Robert. Nei suoi Diari, Musil lasciò trapelare un forte senso di alienazione nei confronti di Roma. La percepì estranea al suo senso estetico e concettuale, scarsamente grandiosa, e di certo lontana da qualunque mitografia neoclassicista.
Lo sguardo musiliano decise allora di appuntarsi sulle apparenti minuzie. Ma, nel profondo, è assai difficile dire che la città eterna non abbia scavato nell’anima dello scrittore austriaco un turbinio di emozioni e di sensazioni. Come già Nietzsche prima di lui, che a Roma aveva vissuto nel 1882 giungendovi da Messina e che sui gradini di San Pietro aveva esclamato, rivolto a Reé, “da quali stelle siamo caduti qui insieme?”, Musil sentì di essere aggredito dal rimpianto, viscerale, di non amare la città. E tutto gli apparve distante, freddo, le rovine, le chiese, i camminamenti che al tramonto scomparivano tra ombre di porpora e di nero. E per questo, mentre da un lato preferì appuntare il suo sguardo clinico persino sugli animali cittadini, i gatti, le capre, le pecore, elevate nei Diari a metafore di una processione sacra, nel suo animo andò serrandosi un germoglio di profondità abissale che si riverbererà nella modellazione della psiche e delle figure dei personaggi dei suoi romanzi più celebri. E invero appaiono esservi scarsi dubbi sul fatto che Clarisse, personaggio femminile de “L’uomo senza qualità”, sia stato costruito, nella parte concernente il viaggio romano, proprio attraverso la creta delle sensazioni vissute da Musil a Roma. La città appare a Clarisse, e dovette apparire così anche allo stesso Musil, come una bottega antiquaria la cui sequenza stordente di meraviglie non è altro che mera esca e risveglio nella consapevolezza che “le cose intorno alle quali ruota l’umanità hanno una faccia che ognuno è solo a conoscere”.