Roma capoccia
I pini di Roma, da Ottorino Respighi a (pardòn) Gualtieri
Il verde romano oggi lasciato al crescere selvaggio da mancanza di cura, un tempo esercitava un fascino sinuoso su intelllettuali, artisti e musicisti
E mentre l’ennesimo pino si abbatte al suolo proprio ai piedi del Campidoglio, scheletrito da inerzia e mancanza di cura, tenue ombra staffilata dal sole ma non da questo ucciso, il sindaco passa in rassegna, fascia al petto, giardinetti, spiazzi assolati come quello di Tiburtina o preoccupato con i rametti in mano dell’altro albero schiantatosi in piazza Venezia.
Muto stillicidio arboreo, di un verde che non è più verde da tantissimo tempo ormai, con i servizi giardini municipali e il dipartimento che cura l’ambiente alle prese con sempiterne crisi di fondi, finanziamenti e personale, resi fantasmatici, in condizione di intervenire soltanto per casi emergenziali e per sentenziare l’abbattimento di qualche albero particolarmente pericoloso, al fine di cautelarsi e di evitare di dover svernare alla latitudine di Piazzale Clodio.
Mi raccontava un dirigente del dipartimento Tutela ambientale, non più in servizio in quegli uffici, che ogni sera, dopo essersi chiuso alle spalle la porta per tornarsene a casa, se sentiva levarsi un vento particolarmente forte sapeva che non avrebbe, per l’angoscia, chiuso occhio per tutta la notte.
Perché la capacità di intervento su una città così estesa e con così tanto “verde”, ormai ocra e arancio nello sminuzzamento di afa e rinsecchimento, con fondi non particolarmente floridi, è men che limitata.
Eppure, con tutte quelle bellissime ville urbane, con quei filari secolari di alberi simili a monumenti naturali, quei giardini e giardinetti, ormai il verde cittadino, che continua a rifuggire da una seria, organica collaborazione con i privati, è ridotto al crescere selvaggio negli interstizi d’asfalto o sul limitare di carreggiate stradali, occludendo la visuale o prestandosi, complice l’inciviltà di automobilisti fumatori, a divenire tizzone infuocato di fiamme e volute nere di fumo.
Eppure c’è stato un ampio tempo in cui il verde verticale, così l’asettico e sempre un po' osceno dizionario della burocrazia qualifica gli alberi, esercitava un fascino sinuoso, setoso, lirico, su intellettuali, artisti e musicisti.
Riprova ne è “I pini di Roma”, che Ottorino Respighi compose nel 1924 e che ebbe un travolgente successo di pubblico, pur dopo iniziali contestazioni.
Come chiunque si sia confrontato con il componimento respighiano sa, i quattro movimenti che compongono l’opera non hanno davvero nulla a che vedere con i pini ma sono piuttosto una celebrazione della bellezza, lucente e oscura al tempo stesso, della gioiosità capitolina, filtrata attraverso la bellezza di quel richiamo al verde.
Ottorino Respighi è stato uno dei più grandi compositori italiani. Su questo scarsi dubbi, e lo hanno sempre rilevato i maggiori critici musicali, da Lee G. Barrow a Paolo Isotta, ed ebbe meno riconoscimenti e fortuna di quanti ne avrebbe meritati, assai probabilmente per il sospetto di adesione al fascismo, lui che non era in verità nemmeno iscritto al PNF, e per il successo che gli arrideva.
“I pini di Roma” è parte essenziale della sua trilogia romana, articolato in quattro movimenti, “I pini di villa Borghese”, “Pini presso una catacomba”, “I pini del Gianicolo”, “I pini della via Appia”, e rappresenta una monumentale e maestosa celebrazione della romanità: evocazione purissima di quella bellezza profonda, contraddittoria, storica e naturalistica al tempo stesso, in cui giochi di fanciullezza e marzialità militare, luce che fende il verde romano e tenebra muschiosa di catacomba sono saldamente intrecciati tra loro come nodi di un arabesco.
Atmosfere suadenti, gioiose, solari lasciano il passo a meditazione e cupezza, al gorgogliare di un passato di martirio e di torce accese nel ventre roccioso della Roma ctonia, per poi tornare ad esplosioni di felicità e di vita condotta sotto un cielo immane e azzurro.
E chissà cosa ne avrebbe pensato il bolognese Respighi di questa ecatombe di alberi, morti esangui su strade ormai mute di bellezza.