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Roma capoccia

Fitzcarraldo al largo dell'Isola Tiberina. Una sera di meta-teatro in barca, sul Tevere

Ginevra Leganza

“L’opera-performance su battello”, ideata e diretta da Fabio Morgan, con le musiche di Francesco Leineri e il libretto di Andrea Carvelli. Alla ricerca di un'impresa impossibile: restituire a Roma un suo volto di civiltà

Non è poi così assurda l’affinità fra l’Amazzonia e Roma. Tra gli Indios Hivaros e i non meno tribali tassisti capitolini. E non è assurdo che Fitzcarraldo si ritrovi al largo dell’Isola Tiberina. Da qui parte “l’opera-performance su battello” ideata e diretta da Fabio Morgan, con le musiche di Francesco Leineri e il libretto di Andrea Carvelli (si chiama performance ma è lirica). Questo Fitzcarraldo salpava una settimana fa all’altezza di Ponte Garibaldi. E ne attraversava tanti, di ponti. Compreso il più bello, Ponte Sant’Angelo, con le statue di Pietro e Paolo e gli angeli della Passione. E davvero non è assurda l’affinità fra Klaus Kinski e il volto ignoto rivolto a prua, che traghetta la barca e annuncia la sua sfida alla natura: al pullulare di cinghiali ed edere piranesiane che sappiamo.

L’eroe di Herzog cova il sogno di un Teatro dell’Opera a Iquitos, il villaggio dove portare Enrico Caruso. Il Fitzcarraldo di noialtri è servo anche lui di un’impresa impossibile: col volto nascosto vuole restituire a Roma un suo volto di civiltà. Ed è una zattera della medusa melodrammatica a trasportare Fitzcarraldo e i due attori. Un lui e una lei velleitaria.  “Non ho ottenuto ancora la mia parte”, canta l’olgettina in costume, “forse dovrei prenderlo in disparte, sedurlo...”. Con tutto il coro in stile umbertino nel ricordo di una Roma al tempo del grammofono... O di d’Annunzio. Una Roma oleografica e dunque perfetta per parafrasare la prima pagina del Piacere: l’estate moriva, assai dolcemente. Di fronte un aiuto regista con oracolo. “La realtà è solo un’illusione”, insinua la voce su synth e controller, percussioni e corno francese che battono elettronica nel controcanto di un gabbiano. Un dinosauro volato via dal Ghetto a coronare la visione apocalittica di un tardo pomeriggio romano.

Ed è tutto oleografico non meno che meraviglioso. E forse è tutto meraviglioso perché è tutto vero: vero il racconto di una città alla fine della decadenza, di un sublime scheletro al capolinea del decoro. Vero il racconto di una città dove ci si veste male (il coro cita Acca-Emme), si costruisce male (cita Calatrava), si pensa male e se è possibile si vive peggio. Uno scheletro che tuttavia raccoglie segni di fiamme antiche. E ben oltre la bellezza, sconfina nel sublime. Che, si sa, è un passo dal kitsch. E cos’è meglio del melodramma per la città che mescola l’eterno con l’orrore? Niente di meglio per nostra signora dei lanzichenecchi. La nostra Roma. Capitale del kitsch.
 

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