Roma Capoccia
Quel luogo ignoto che si chiama Roma: la città di Roberto Bazlen
La capitale negli occhi di questo pioniere delle lettere, scopritore di Svevo e fondatore di Adelphi con Calasso
Un segmento psicogeografico che pur incastonato nel ventre di Roma, di questa città assopita, memore del crepitare delle bombe e della frana rovinosa dei palazzi, uggiosa, ombrosa, sarcastica e placidamente ripiegata sul suo ombelico, per una furtiva gioia dell’eternità, tradisce la scintillante epifania di un uomo che vive per i libri, nei libri, attraverso i libri. Via Margutta, primo piano del civico 7, prima del boom economico, culturale e pittorico che avrebbe scolpito una iconografia toponomastica e viveur; una piccola stanza, occupata da una figura circondata dai volumi e con un letto trasformato in estensione della propria biblioteca.
Lui è Roberto Bazlen, “Bobi” per gli amici, una cerchia ristretta che avrebbe dato parole meravigliose al mondo. Triestino di nascita, mitteleuropeo di formazione e di ricerca, con lo sguardo volto a Oriente, oltre quei tetti, oltre quei gerani in fiore e le sale da tè e lo sguardo sornione dei romani, si è ormai trasferito a Roma. Di Bazlen ci ha lasciato un meraviglioso ritratto Roberto Calasso, in “Bobi” (Adelphi), piccola ma intensa plaquette che ricostruisce l’ossatura di questo precursore, di questo pioniere delle lettere, già consulente editoriale della Einaudi e che nella sua inesausta sfida con le lettere, con i nomi obliqui, interstiziali, avrebbe contribuito a far conoscere e pubblicare autori geniali che l’Italia non sembrava pronta ad accogliere.
Fu Bazlen a decretare il successo di Italo Svevo, con caparbietà metodica e raffinate arti diplomatiche. E fu sempre Bazlen a cesellare e modellare la fisionomia nascente di Adelphi, dando luce e vita ad autori situati appunto a oriente, un oriente metafisico, piantato come punta di lancia nel costato di Roma. In “Bobi”, seguiamo Bazlen nel cuore del trapezio di Piazza di Spagna, lungo via Margutta e via del Babuino, lo vediamo seduto a un tavolino intento a prendere appunti, a scarabocchiare e sottolineare una nota, un passaggio, delle parole. Sguardo chirurgico, erudizione enciclopedica, in apertura di “Bobi” è intento a colloquiare con Elémire Zolla e Cristina Campo, a proposito della sublime traduzione che Cristina Campo stava preparando dei versi di William Carlos Williams.
Primo incontro in assoluto con lo stesso Calasso. In questa Roma, la Roma in cui per strada o ai tavolini di un qualche bar o tra le ceramiche di un appartamento del centro potevano intersecarsi le traiettorie esistenziali di Elsa Morante e Mario Praz, di Cristina Campo e Giacomo Debenedetti, Bazlen era presenza discreta, fantasmatica, quasi evanescente; non apparteneva all’ambiente delle lettere, intessuto questo non solo di parole ma anche di impegno sociale e politico e di vernissage, di interminabili discussioni che di tutto parlavano fuorché di bellezza letteraria.
Bazlen viveva nei suoi libri, i libri unici che in larga parte sarebbero stati poi pubblicati dalla Adelphi. La Roma in cui Bazlen si trasferisce dal settentrione, è la Roma che a breve sarebbe stata inghiottita dal conflitto. Una Roma di nebbie e SS, di portoni fiocamente illuminati e di damigiane di vino rosso schiantate sul selciato, sotto la perenne minaccia delle bombe e della scarsità di luce. La Roma di Leonor Fini, della pizza cattiva e del freddo. Una Roma, quella emersa dai fumi e dalle macerie della guerra, provinciale e grandiosa al tempo stesso, che sembrava, tra il Caffè Greco e i mercati rionali, essere la migliore risposta all’interrogativo che Calasso pose a Bazlen. “Che cosa potrebbe tentare uno scrittore in questo momento?”, al che Bazlen rispose “o il minuscolo o l’immenso”.
E questa era anche Roma, sommatoria di infinite contraddizioni, palcoscenico di grandezze e di miserie, di occhi volti verso l’infinito o contro un muraglione decrepito sormontato da muschio ispessito. In questa Roma, si poteva essere solo dei turisti o dei pellegrini, annota Calasso, una Roma tumultuante di espatriati stranieri, di letterati che venivano a respirarne l’aria insolente e taciturna, cercando impossibili ispirazioni. Eppure Bazlen, non era né l’una né l’altra cosa. Era il coltello capace di tagliare la foschia delle parole, delle parole eccessive, insensate, ampollose. Era una piccola luce di gnosi.