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Roma Capoccia

La femminista Roberta Tatafiore e Roma, diario di un suicidio

Andrea Venanzoni

Personalità poliedrica, sociologa, scrittrice, comprese le femministe, da cui prese le distanze quando si accorse della fine del patriarcato come storicamente inteso e dell'insopportabile moralismo politicamente corretto che andava già impestando certa sinistra

Questa è storia di un suicidio. Di una fine, che ha origine a Foggia, nel sudario di sangue e di fuoco dei bombardamenti alleati, ma che poi si dipana nel ventre silenzioso di Roma. Lei è Roberta Tatafiore, che viene al mondo il 22 gennaio del 1943 mentre il mondo avvizzisce come tizzone di legno esposto all’uragano di cenere e fiamme. Personalità poliedrica, sociologa, scrittrice, acuta osservatrice della realtà sociale, femminista storica e libertaria di sinistra, è stata una delle prime a interessarsi non moralisticamente di prostituzione, pornografia, fine vita e di qualunque altro argomento la società abbia tentato di scansare in maniera sdegnata. Comprese le femministe, da cui prese le distanze negli anni ottanta, quando ebbe chiara la percezione della fine del patriarcato per come storicamente inteso e dell’emergente, insopportabile moralismo politicamente corretto che andava già allora impestando certa sinistra.


Roberta Tatafiore, dopo un girovagare per l’Italia, si era poi stabilita a Roma, che aveva coltivato come un proprio giardino di riflessione e di collaborazioni. Non sorprendentemente dopo aver a lungo frequentato e lavorato negli ambienti dell’estrema sinistra, tra collettivi femministi e le pagine di Unità, Manifesto e altre riviste dell’arcipelago anarco-comunista, era approdata nel piccolo ma agguerrito universo dei Radicali, aderendo al Coordinamento anti-proibizionista di Marco Taradash e inanellando una serie di battaglie su fine vita e depenalizzazione totale, ad eccezione dello sfruttamento, della prostituzione. Successivamente si era spostata a destra, ma sempre con sguardo critico e posizione di nicchia, iniziando a collaborare con Il Secolo d’Italia, alternandosi con Isabella Rauti in una rubrica dal significativo titolo “Thelma & Louise”, con Il Giornale e Il Foglio, ma non mancando di criticare Gianni Alemanno e le sue ordinanze contro le prostitute. Roberta Tatafiore è stata prima di tutto una rigorosa intellettuale che ha dato anche un notevolissimo contributo di studio al diritto e alla sociologia del lavoro, oltre che una guerrigliera degli ambiti più interstiziali delle passioni umane. I suoi volumi sulla prostituzione, anche maschile, sul porno, sul transessualismo spazzano via le derive odierne che vogliono “ideologizzare”, cioè collettivizzare, istanze che sono e rimarranno sempre individuali. 

Roberta Tatafiore fu anche traduttrice e a lei dobbiamo la traduzione italiana di quell’autentico capolavoro rispondente al nome di “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. Donna stoica fino alla fine, ha messo su carta il proprio suicidio, nel volume ‘La parola fine – diario di un suicidio’, pubblicato nel 2010, anno seguente la sua scomparsa, da Rizzoli, “narrando” come cronaca diaristica sospesa tra Amelia Rosselli, Sylvia Plath e Marina Cvetaeva, i tre mesi precedenti la sua fine e descrivendo con piglio arguto la sua preparazione, quasi da Catara, della morte. Tra le pagine di questo diario della distruzione, per parafrasare Winfried G. Sebald, emerge una consapevolezza che ha poco dello struggimento che vorrebbe rendere il suicidio un atto quasi estetico: per Roberta Tatafiore, che orna e pulisce la sua abitazione all’Esquilino perché non vuole lasciar a intendere post-mortem una qualche sciatteria e che per l’estremo gesto sceglie un tranquillo, raffinato albergo vicino viale Manzoni proprio per non infrangere il candore della abitazione, il suicidio è prima di tutto una rivendicazione di autodeterminazione. Scorgiamo così, fantasmatica, in filigrana, la sagoma assopita di San Lorenzo, del centro storico, dell’Esquilino, quartiere magmatico dentro cui isolarsi fino appunto alla celebrazione della fine, dell’Appia, legata, nella topografia del cuore, all’affetto paterno.

In un suo scritto dedicato a Eluana Englaro, Roberta Tatafiore si era interrogata sulla appartenenza della vita, concludendo che essa appartiene a ogni singolo individuo libero di affidarla a chi vuole, sulla base dei propri convincimenti e della propria coscienza. E lei, fedele e coerente, ha dato commiato al mondo, in quella lucente stanza d’albergo.
 

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