Roma Capoccia - la tradizione abbandonata
“Annamose a pijia' na Gianna”, non lo si dice più. La sparizione del frittatone dai bar
Era un frittatone con broccolo romano, patate e alici sotto sale e se ne stava in bella mostra sui banconi della maggior parte dei bar e delle osteriole. Costava poco ed era mangiato da tanti. Ora non esiste più
Raccontava Andrea Camilleri che del suo primo periodo romano, arrivò nel 1949, ricordava soprattutto una cosa: gli amici all’uscita dell’Accademia nazionale d’arte drammatica che nel pomeriggio se ne uscivano con un “Annamose a pijia’ na Gianna”.
La Gianna era ed è a Roma il vento freddo che viene da nord, ma non in questo caso. La Gianna era e non è più qualcos’altro. Un frittatone con broccolo romano, patate e alici sotto sale e se ne stava in bella mostra sui banconi della maggior parte dei bar e delle osteriole. Gli amici di Camilleri se la pijavano “a Piazza Verdi, in un baraccio che per cinque lire ti dava pure un bicchiere di vino”.
La Gianna era una delle istituzioni di Roma. C’era già all’inizio dell’Ottocento, tanto che nelle riunioni romane della Giovine Italia, scrisse il patriota e politico Luigi Pinciani, “si discuteva di patria e di rivalsa tra una Gianna e affogatino” (ossia uno spriss ante litteram: vino rosso allungato con acqua e una fetta d’arancia). La Gianna era una frittatona irresistibile, anche perché costava poco o nulla e riempiva la pancia.
Le leggende sull’origine del suo nome si sprecavano. Lo scrittore e giornalista romano Livio Jannattoni provò a risalire all’origine. Desistette. Poi desistette anche dal cercarla. Già all’inizio degli anni Sessanta sui banconi dei bar la Gianna era quasi scomparsa. Resisteva di qua e di là, più per abitudine dei proprietari a prepararla che per gusto dei romani. Resisteva da Franco in Campo marzio, un buco di osteria che si trovava su via dei Prefetti e che Vasco Pratolini ricordava per anni perché “alta tre dita”.
Ora la Gianna non c’è più. Se ne è andata pure dal baretto di fronte al Mattatoio a Testaccio dove fino agli Ottanta ancora aveva dimora. “Annamose a pijia’ na Gianna” non lo dice più nessuno. Funziona così in cucina, come in ogni altra cosa: la tradizione è sempre un accumularsi di piatti che ce l’hanno fatta, una canonizzazione di ciò che a un certo momento ci sembra più adatto ricordare.
La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui), la seconda invece sulla pastipane o sugnipane (la potete leggere qui)