Roma Capoccia
Così Pavel Muratov lesse la città eterna in chiave universale
Il viaggio e il soggiorno capitolino dello scrittore russo è pubblicato nel secondo volume di ‘Immagini dell’Italia’, edito da Adelphi
Pastoso prima come broda primordiale, tentacolare, radiante, disteso in una policromia intessuta di celestino e di slabbramenti purpurei, e poi più giù di un cremisi gorgogliante e perso in un verde tendente alla secchezza; esplosione di smeraldo sfiancato, lo sguardo di Turner si rende dipinto, sì, ma soprattutto occhio che tutto scruta e che dalla campagna laziale inghiotte la fisionomia eterna di Roma. Ed è attraverso l’arte, autentico colloquio con le lettere e con la pittura e con la marmorea memoria di un passato universale, che Pavel Muratov si confronta con la grandezza, metafisica prima ancora che storica e architettonica, di Roma.
Muratov rappresenta uno straordinario esempio, forse assieme a Puškin il più cristallino, di una vocazione alla lettura di Roma, e dell’Italia, in chiave universale.Approda nella penisola nel 1909, la visita discendendo dal Nord, rimane incantato da Venezia e da Firenze ma è Roma a conquistarlo: nella città eterna lungamente soggiorna e qui, nel 1923, invitato per delle conferenze, avrebbe maturato la decisione di abbandonare per sempre la Russia.
In Italia, e a Roma in particolare, il letterato russo sviluppa un senso terso, profondo, di adesione a una connessione ancestrale con il passato. Muratov del suo viaggio in Italia ci ha lasciato un ponderoso, meraviglioso resoconto che Adelphi ha pubblicato in due tomi, tra il 2019 e il 2021, ‘Immagini dell’Italia’.
E Roma vi affiora, monolite e presenza quasi occulta, con il suo peso di millenni sulle spalle. Elemento quasi egemonico del secondo volume, ove un terzo circa delle pagine sono occupate dalle sensazioni, dalle visite, dal bearsi, dall’essere rapito dagli affreschi, dai palazzi, dai musei, dalle opere d’arte che traboccano come una inondazione di stucchi e di pietra e di cieli specchiati sui Fori.
A differenza di molti altri resoconti del Grand Tour, la penna muratoviana si intinge nell’inchiostro della sensibilità e dell’adesione, emotiva, spirituale, alla bellezza percepita e vissuta. Una immersione di senso che intreccia suggestioni letterarie, come nel farsi guidare dai ricordi di Goethe lungo certe direttrici capitoline, con la sapienza dell’autore e la sua vissuta, quasi commossa essenza interfacciata con gli spiriti del passato. Per Muratov, Roma diventa epicentro e crocevia di strade affrescate che rimandano a una cosmogonia turrita, in cui ogni spazio come in un dipinto romantico è al tempo stesso caducità dell’essere e pianura di una estetica abissale. Borborigma di caos e di luci, come in un dipinto di John Martin, genesi contemplata serenamente nei palazzi Vaticani o nella quiete estatica delle opere di Michelangelo che per Muratov avrebbero esplicato valenza fondante ed epifanica come quasi negli stessi anni sarebbe stato per Freud.
Le pieghe della carne, trasposte nel marmo. Lineamenti di volti e rughe scavate con scalpello divino e tramonti rosso fuoco annegati nel Tevere, in profili assopiti che danzano, nella penna di Muratov, come un carillon di estasi e di sdilinquimento. I colli capitolini, assediati da una natura verdeggiante che non cinge solo le campagne, maestre di paesaggio nel loro essere approdo di visione pittorica, ma invade e permea e inghiotte la stessa città eterna. Eterna, già. Mai come nella scrittura e nelle descrizioni di Muratov si era avvertito il senso fondo di una eternità quale porta d’Ade varcata la quale ci si ritrova circondati da coloro che furono e dalle loro opere, grandezze e miserie. “Il significato materiale delle cose si è dissolto – annota – e la loro essenza spirituale è stata liberata. Tutto ciò su cui si posa lo sguardo è sepolcro, ma la morte ha abitato qui tanto a lungo che questa sua dimora, la più antica e la più regale, è infine divenuta la dimora stessa dell’immortalità”. Col fiato mozzato dalla commistione di rovine e chiese e dipinti e architettura stratificata per epoche e stili, Muratov è quasi sopraffatto, abbagliato, da questo spazio che muta in quintessenza della bellezza. E in canone di una eternità universale.