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Roma Capoccia

Cronache di un oscuro fiume malvagio: il Tevere e la morte

Andrea Venanzoni

Da Eliogabalo ai casi più recenti, il fiume tutt’altro che biondo racconta una sua antica spoon river

E si getta il suo corpo nel Tevere […] Così finisce Eliogabalo, senza epitaffio e senza tomba, ma con dei funerali atroci. È morto vilmente, ma in stato d’aperta ribellione; e una simile vita, coronata da una tale morte, non ha bisogno, mi pare, di conclusione. Nella penna sanguinolenta di Antonin Artaud, in “Eliogabalo – o l’anarchico incoronato”, emerge l’insondabile fine dell’imperatore Eliogabalo che dopo eccessi e stelle di caos, tradito da quello stesso popolo che pure aveva blandito e aiutato, venne massacrato, decapitato e spellato nel vano tentativo di gettarlo nella fogna capitolina. E così pretoriani e plebe riottosa furono costretti a ripiegare sulle acque forse all’epoca davvero bionde del Tevere, ove il cadavere macinato, ormai poltiglia rossiccia, venne piombato tra strepiti e insulti.
 

Il Tevere scorre parallelo al centro di Roma, incuneato sotto un cielo livido, specchio melmoso della decadenza della città. E come in ogni Spoon River marcescente che si rispetti, nel berciare sguaiato di gabbiani e nel ruminare di topi di fogna, tra quelle acque ormai di catrame e liquami, purulente, puzzolenti, nonostante esse siano occhieggiate con perplesso trasporto dai turisti, ecco apparire molto spesso vite spezzate.
 

Corpi estratti dalle acque, gonfi, pingui, frettolosamente issati dalle carrucole per evitare pasti osceni agli smartphone dei passanti. Una lunga, lunghissima sequenza. Volti spesso rimasti anonimi, e chissà quanti altri cadaveri quel fiume non ha mai restituito, preferendo custodirli sul suo fondo, tra carcasse di monopattini e mangrovie subacquee rese mutanti dall’inquinamento. Al Lazio d’altronde spetta il triste primato dei morti senza nome. E il Tevere è custode geloso. Crudele e malvagio, per riprendere la nota frase che William S. Burroughs aveva partorito per descrivere la sua infanzia. “Cadavere rinvenuto” o “cadavere trovato”, con la variante “ripescato”, in abbinamento al nome del fiume è titolo che ormai da tempo fa genere letterario. Turisti americani, spinti a viva forza dopo traffici mai chiariti sul greto dove cispose favelas di punkabbestia e spacciatori si irradiano senza piano regolatore.
 

O storie strazianti come quella giovane madre, depressa, che nel 2018 si elevò nel primo mattino, al piangere albeggiante di tenue luce arancio sui profili marmorei delle statue e delle Chiese, sul parapetto di uno dei ponti che fendono le acque e collegano le due sponde, e si inabissò a tuffo d’angelo con in braccio le sue due gemelline di pochi mesi. Annegarono tutte e tre, ma i corpi delle due bimbe non vennero ritrovati.
 

O esattamente un anno dopo, quando venne ripescato un anonimo corpicino annegato di una neonata che scorreva a pelo d’acqua, gli occhi chiusi per sempre, all’altezza di Mezzocammino. Altre volte, cadaveri scovati da canoisti o da pescatori, come in una tragica riedizione di un triste carnevale di morte. Cadaveri senza mani, come quello trascinato dalla corrente fino a Fiumicino, cadaveri con zainetti e nessun effetto personale, scheletri in conformazioni quasi esoteriche come quello composto da ossa umane di cinque persone diverse e che dal 2007, quando fu ritrovato, inquieta i sonni di pescatori, canoisti e poliziotti.
 

Bambini, giovanissimi e anziani, come l’ottantaduenne il cui corpo è stato issato a terra quattro anni fa. Uomini e donne. Di ogni professione e persuasione. Artisti di strada, turisti, spacciatori, prostitute, ma pure pensionati, studenti, un oceano di storie spezzate ed eternate nello scorrere putrido di quelle acque fangose, teatro triste e indifferente del paesaggio urbano. Sporco, olezzante davvero come fosse stato condannato a divenire quella fogna dentro cui i romani antichi volevano scagliare Eliogabalo. “In quel silenzio, tra i muraglioni che al calore del sole puzzavano come pisciatoi, il Tevere scorreva giallo come se lo spingessero i rifiuti di cui veniva giù pieno” ha scritto Pier Paolo Pasolini, echeggiato dalla delusione di Ingeborg Bachmann che specchiandosi sulla superficie del fiume lo vide osceno, privo di bellezza, trascurato. Uno Stige denso di memorie e di sofferenza.

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