Roma Capoccia - la tradizione abbandonata
Cipolle e uova franco-romane
Quella "strana" somiglianza tra l'œuf d’oignon provenzale e la zuppa secca di cipolle (con l'uovo) che si mangiava nella Roma papalina
Fu qualche mese dopo l’occupazione di Roma – era il 3 febbraio 1808 – che il generale Sextius Alexandre François de Miollis, governatore degli Stati pontifici fino al 1813, scrisse al fratello François-Melchior, all’epoca vescovo di Digne – e ispiratore del vescovo Myriel, personaggio nel romanzo di Victor Hugo Les Misérables – che “tra i fatti strani che la vita ci mette di fronte, uno, di enorme pochezza me ne rendo conto, mi ha stupito. La scorsa settimana Louis-Ferdinand mi ha fatto partecipe dell’uso in città del desinare con le nostre amate œuf d’oignon. Incredulo, invitai Louis-Ferdinand a dimostrare la veridicità di quello che mi aveva raccontato. E lui portò nelle stanze questo laido uomo romano che nelle cucine di palazzo preparò deliziose œuf d’oignon, pari addirittura a quelle che ci deliziavano ad Aix”.
Il vescovo Myriel era noto, oltre per la sua natura caritatevole e le virtù evangeliche, anche per il suo buon appetito e la sua passione per il cibo, a tal punto che fece redigere un ricettario che sino ai primi anni del Novecento fu considerato di ottimo livello da parte dei migliori cuochi francesi.
L’œuf d’oignon era una antica ricetta provenzale, una sorta di pasticcio di cipolle all’aceto stracotte nel burro al quale, una volta messo in un coccio, veniva lasciato uno spazio al centro nel quale veniva versato un uovo prima di essere coperto da altre cipolle e formaggio e finito di cuocere in forno facendo rimanere l’uovo barzotto.
Lo stupore del generale per l’incredibile “uso in città del desinare con le nostre amate œuf d’oignon”, non sarebbe dovuto essere tale. Un po’ perché a Roma, già almeno dal Seicento era semplice trovare in città luoghi dove si mangiava la zuppa secca (così chiamata perché con poco brodo) di cipolle con l’uovo, tanto da “apparire” in una commedia di Giovanni Briccio; un po’ perché gli ingredienti sono semplici e l’esecuzione del piatto è povera; un po’ perché gli “scambi” tra Roma e la Provenza iniziarono diversi secoli prima, senz’altro a partire dal pontificato avignonese di Innocenzo VI quando da Roma, oltre al legato per l’Italia, il cardinale spagnolo Egidio Albornoz, arrivarono (era la metà del 1300) ad Avignone pure una squadra di cuochi romani, come dono delle famiglie romane guelfe per la crociata contro i Forlivesi (ghibellini).
La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui), la seconda invece alla pastipane o sugnipane (la potete leggere qui), la terza parla della Gianna (la potete leggere qui), la quarta alla ciofella (o carciofella – ecco l'articolo), la quinta alla vignarola (qui per la lettura); la sesta ai quaresimali (la trovate qui); la settima al pecorotto (che è qui in tavola),