Roma Capoccia
La Roma di Gadda, ovvero la topografia di una disillusione
Il romanziere fu fascista e poi disilluso: la capitale restò per lui il fondale di cartapesta in cui si muoveva Mussolini
Nel freddo dei baraccamenti del campo di prigionia, dietro il filo spinato e sotto lo svogliato sguardo delle sentinelle, un manipolo di uomini solleva in alto i bicchieri e celebra il Natale di Roma. In disparte, escluso dalla celebrazione in quanto di origini milanesi, un giovane tenente rivolge comunque il suo “saluto del figlio senza scarpe alla Madre lontana ed augusta ed eterna”. Quel militare è Carlo Emilio Gadda. Fervente interventista, spirito risorgimentale, anche per ragioni di milieu familiare, il futuro scrittore si arruola, combatte nelle trincee della prima guerra mondiale e viene poi fatto prigioniero. Memoriale di quei giorni che contiene l’estratto di cui sopra, il “Giornale di guerra e di prigionia” edito da Adelphi. Gadda accetta serenamente la sua esclusione dal rituale che i prigionieri romani e laziali hanno inscenato. In primo luogo, perché sa egli stesso di non essere romano, ma in secondo luogo ed è questa la vera motivazione perché gli ripugna quella bicchierata, così epidermica e in certa misura grottesca: per lui al contrario Roma è la Madre non solo lontana, appellativo che userà nelle sue corrispondenze anche per definire sua madre, ma pure augusta e eterna.
Per Gadda, Roma è prima di tutto mito. Emblema splendente di sintesi e unificazione, politica e storico-artistica, di una patria giovane e che va ancora costruendo la propria identità. Meno gli interessa la dimensione concreta della città, la sua essenza sociale, urbanistica, e che pure egli vivrà quando si trasferirà dopo la guerra proprio nella Capitale, impiegato presso la Rai. E l’aspetto metafisico si accrescerà con l’avvento del fascismo e con la centralità mitografica di Roma che il fascismo stesso porrà come cardine della propria attività. L’adesione di Gadda al disegno complessivo di società immaginata dal fascismo si muove sempre entro il perimetro della romanità storica e mitica. I suoi contributi scritti del tempo ne sono perfezionata testimonianza, oltre a evidenziare una non comune minuziosità, una acuta precisione nella definizione dei particolari e una piena erudizione sui modelli istituzionali, sociali e militari di Roma antica.
Ovviamente questa straniante congiunzione, quasi spirituale, tra Gadda e l’antica romanità porterà anche alla sottovalutazione di un mondo avviato sul ciglio del disastro. E così, quando già i colpi di cannone e i bombardamenti squassano l’Europa e anche l’Italia si avvia a entrare in guerra, Gadda continua a coltivare l’aureo mito di Roma come simbolo universale e pacificatore di tutte le genti.
Forse per la ferita sanguinante di un amante deluso, per la promessa ferocemente non mantenuta dallo stesso fascismo che di Roma si servì in maniera superficiale, gretta, Gadda riversa nella sua opera forse più nota, e di certo più romana a partire dal titolo, una satira feroce contro lo stesso fascismo. “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” è prima di tutto una sorta di regolamento di conti. Ma soprattutto è una ampia, nitida topografia della disillusione. Sia nei confronti di quel movimento che aveva cercato, con esiti infausti, di dare vestizione politica alla romanità, sia nei confronti della città stessa, così diversa dalla luminosa aura che essa avrebbe invece dovuto emanare stante il suo glorioso passato.
A penetrare nel tessuto narrativo del romanzo gaddiano non è più il mito di Roma, il suo spettro purpureo e cinto degli allori della vittoria, ma una città reale, la città degli olezzi, del caos, della morte, il “pasticciaccio brutto” appunto. Ritualmente votato a fare anche i conti con se stesso e con la propria passione per Roma, Gadda consacra lo svolgimento del romanzo a immolazione sacrificale delle sue passate illusioni. La Roma del “Pasticciaccio”, una Roma del 1927 vista con lo sguardo degli anni seguenti la fine del conflitto, è una zuppa fetida, un pollaio indisciplinato, in cui le vestigia romane sono vilipese proprio da chi, il Regime, a parole avrebbe voluto eternarle nel mito assoluto di un mondo nuovo e fanno da scenario funereo a una realtà contingente miserevole.
Andrea Venanzoni