Roma Capoccia - la tradizione abbandonata
La pora stracciatella
Brodo, uova, cacio grattato e pane raffermo “pecché erimo tutti malati de fame”
Il ragazzo, con la voce un po’ fiaccata dalla febbre disse: “Ah ma’, me la fai la stracciatella che nun me sento bene? So’ malato”. La donna sbuffò. Si avvicinò al ragazzo, gli accarezzò il viso: “Te la faccio, te la faccio”. Poi si diresse verso il cucinino. “So’ strani i tempi però, quann’ero regazzina la stracciatella nun la se magnava pe’ guari’ ma pecché erimo tutti malati de fame”.
Non sono poi troppo strani i tempi, verrebbe da dire alla donna che parla al pubblico nei primi minuti di “Voci per la signora Luciana” di Luigi Silori. O forse sì, lo sono. O almeno è strano il correre e il rincorrere del cibo nelle nostre esistenze, la ricomparsa sulle tavole di certi piatti depurati da tutte le incrostazioni che il tempo aveva depositato su di essi. La stracciatella era piatto povero per poveri. Brodo di carne se andava bene, brodo con quel che c’era più spesso, qualche uovo ben sbattuto dentro il brodo, una crosta di cacio grattugiata per rinforzare. E pan raffermo (o semolino) per ingannare la pancia e farla sembrare piena almeno per qualche ora. Perché “erimo tutti malati de fame”, diceva la sora Luciana, e di tanto non si sbagliava la sora Luciana. E quello che ai tempi, gli anni Cinquanta, si dava a chi era malato, per secoli è stato cibo da tutti i giorni.
La stracciatella la si mangiava quasi ovunque in Italia, senz’altro quasi ovunque nei terreni del fu Stato pontificio. Perché Dio sarà anche misericordioso, ma chi amministrava in nome suo lo era parecchio meno e l’unica cosa che univa quasi tutti gli uomini era un appetito quasi mai saziato.
Tra le mura di Roma il brodo quanto meno era quasi sempre di carne. Perché con tutte quelle bestie che servivano ai vaccinari (i conciatori) di tagli a due spicci da bollire se ne trovava sempre. Fuori no. Fuori le mura dentro l’acqua ci finiva un po’ di sedano, qualche cipolla, qualche patata se andava di lusso che fino agli anni Trenta dell’Ottocento di patate in giro ce ne erano assai poche. Perché la stracciatella c’era ben prima della diffusione di massa delle patate. E chissà da quando. Ai cibi dei poracci non appiccicano la data, nessuno reclama paternità fantasiose, origini mitiche o mitologiche. Ora la stracciatella è un tripudio di ingredienti: noce moscata, prezzemolo, scorze di agrumi, parmigiano reggiano tantissimi mesi. In un locale del centro di Roma che si vanta di rispettare la “vera” tradizione ci aggiunge pure il carciofo fritto, perché così, dicono, si mangiava in famiglia da secoli. Famiglia dalla buona memoria.
La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui), la seconda invece alla pastipane o sugnipane (la potete leggere qui), la terza parla della Gianna (la potete leggere qui), la quarta alla ciofella (o carciofella – ecco l'articolo), la quinta alla vignarola (qui per la lettura); la sesta ai quaresimali (la trovate qui); la settima al pecorotto (che è qui in tavola), l'ottava alle copolle con le ova (la trovate qui).