Roma Capoccia
Morire e rinascere ogni giorno: la Roma di Luigi Malerba
“Il serpente”, romanzo o anti-romanzo originariamente edito da Bompiani, racconta la storia incupita di un'ossessione. Un protagonista che mette in questione tutto ma che ha un unico punto fermo: Roma
Nell’antico testo egizio “Il libro dei morti” leggiamo: “Io sono Sata, allungato dagli anni, io muoio e rinasco ogni giorno, Io sono Sata che abito nelle più remote regioni del mondo”. La più antica testimonianza di un Uroboro, simbolico serpente che mordendosi la coda simboleggia il principio trascendente di unificazione di inizio e di fine, di velocità e di stasi, ci arriva proprio dall’antichità egizia. E poi su attraverso le epoche, tra le lamine irradianti luce dello gnosticismo, del cristianesimo delle origini, del pensiero ermetico, dell’alchimia. Fino a quella vetrina in via Arenula, quella vetrina polverosa e francobollata da cui occhi avidi, solitari, tristi, scrutano il fluire della vita esterna.
Anche qui, un serpente. Avanza nel vuoto, è e incarna il vuoto, in una narrazione destrutturata, onirica, grottesca, falsaria nella sua baldanza estrosa e nichilista. È “Il serpente”, romanzo, o anti-romanzo, epopea ctonia capitolina composta dalla penna di Luigi Malerba: originariamente edito nel 1966 dalla Bompiani e poi pubblicato da Mondadori. Storia incupita di una ossessione. Forse di una falsificazione. O di una psicosi. Di tutto e di niente, di ombre che popolano inquiete una soglia cangiante, con un protagonista che mette in questione tutto, se stesso, la parola, la dialettica, l’esistenza. Unico punto fermo, Roma. I richiami e i rimandi ai luoghi romani diventano l’unica certezza in questo trascolorante deserto di angoscia e di finzioni.
In apparenza, vicenda nera di una ossessione amorosa, di questo mite proprietario di un negozio di filatelia; odia e disprezza tutti, a partire dai suoi stessi clienti. Vede la vita, e in apparenza la rifugge. Gente che parla, ciancia, sproloquia, ma in fondo cosa si dicono? Fino a quando nella sua esistenza non penetra, trasognata, trasfigurata, serpentina, Miriam. La sua fiamma. La sua ossessione, appunto. Storia che si riavvolge su e in se stessa, drammaticamente, senza lasciarci capire cosa ci sia di vero, cosa di artefatto, cosa di sputato fuori in un parto cosmico di inquietudine nebbiosa. Il protagonista giunge a fare a pezzi la sua amata. La divora. Moderno Crono che si perde poi lambiccato tra i marmi, gli angeli, i fiori, le cappelle votive del cimitero del Verano, non sapendo bene dove gettarne i resti. Ma è successo davvero questo efferato, crudelissimo delitto? O non è forse, più probabilmente, un tetro inganno, un espediente linguistico, una allucinazione, una abiezione storica che ci viene smerciata per la gloria irretita di chi deve comunque parlare per spezzare la solitudine e l’orrore della lingua morta, del vuoto?
“Il serpente” è un Uroboro narrativo incattivito dalla necessità di confrontarsi con il linguaggio e con la sua inaudita crudeltà, è farsa, festa grottesca, carnevale nero e ironico al tempo stesso. L’unica verità, incontestabile, è proprio Roma. Architettura di senso e di percezione, in un oceano di indefinita vischiosità. Roma punteggerà un altro importante libro di Malerba. “Mozziconi”, in origine edito nel 1975 da Einaudi e poi pubblicato dalla Quodlibet. Libro che ha conosciuto anche un adattamento televisivo, “Le storie di Mozziconi”, diretto da Nanni Fabbri e in cui il protagonista è interpretato da Leo Gullotta. Mozziconi è un clochard, un barbone, che sosta esistenzialmente sul greto del Tevere. Come i saggi cinesi contempla in quello specchio d’acqua melmosa il fluire della vita, e ne fa filosofia, perché il barbone è a suo modo filosofo. Come lo fu Diogene, assai spesso richiamato dalla critica.
Mozziconi è un individuo che ha chiuso il mondo alle sue spalle, che non ha semplicemente sbarrato porta e finestre. No. Ha piuttosto gettato la finestra dalla finestra, in un esercizio Zen che perpetua la sua essenza per una Roma plumbea, minacciosa. Tanto Roma era stata essenziale e salvifica ne “Il serpente”, quanto ora si trasforma in una bitorzoluta meretrice, in oleosa metastasi che divora e metabolizza il mondo. Scrive bene Giorgio Biferali che recensendolo ha richiamato il concetto leopardiano di una città che non finisce mai. Un agglomerato cementizio che ti volta le spalle.