Roma Capoccia - la tradizione abbandonata
Dal brodetto pasquale alla pizza cresciuta, com'era il (non) pranzo pasquale a Roma
Quando a Elena Fabrizi, per brevità Sora Lella e basta, chiesero consigli sul menù pasquale, quali fossero i piatti “veramente” tradizionali del pranzo di Pasqua, lei rispose in modo secco e, almeno per i radioascoltatori di Radio Lazio dell’epoca – era il 1990 –, spiazzante: “Macché pranzo de Pasqua, nun c’era er pranzo de Pasqua, o mejo, nun era come quello de oggi. Chi se trovava fora dalle chiese, chi fora le case der popolo e se metteva ‘nzeme quello che avea da magna’. Era questa ‘a vera tradizione de Pasqua”. Possibile? Possibile. Scrisse Filiberto Scarpelli sulla rivista umoristica “Numero” che “per non fare brutta figura alla ritrovata pasquale, evitate le ova se son più di una settimana e non fate i furbi con le cotiche, che se san troppo d’aceto fate la figura dei pezzenti, e vi tocca mangiarvele l’indomani, con li fascioli che intanto si sono rattrappiti”.
Le Pasque a Roma, o in buona parte di Roma, erano festa collettiva che iniziava dopo la funzione religiosa o, per chi in chiesa non ci andava, alle Case del popolo o nei circoli ricreativi rionali. Ognuno portava quel che aveva, ma c’era una cosa che non poteva mancare, che di solito si faceva sul posto, da chi se ne prendeva carico: il brodetto pasquale. Il brodetto pasquale era brodo di carne di manzo e di agnello bolliti con una spruzzata di concentrato di pomodoro (o almeno dal 1880, nei ricettari antecedenti a quella data di concentrato di pomodoro non se ne faceva menzione) al quale si aggiungeva prima di servire uova sbattute, una spruzzata di limone, qualche foglia di maggiorana, una grattata di pecorino e qualche fetta di pane abbrustolito. La carne invece veniva sfibrata e messa in una ciotola e condita con un po’ d’olio e limone e messa su crostini o una polentina di semolino.
E non potevano mancare nemmeno le pizze cresciute, ossia delle torte salate a base di pasta di pizza che venivano impastate con gli sfrizzoli (ossia fiocchetti di lardo fritto), un po’ di pancetta o di salame (uno solo dei due, all’epoca la sola idea di utilizzare due salumi diversi era considerata eresia), e qualche pezzo di caciotta. Del tutto simile al casatiello campano.
Il pranzo di Pasqua non era ovviamente un vero pranzo, iniziava nella tarda mattinata e poteva andare avanti sino a sera. O anche dopo. “Alla Pasqua del 1910 tornai a casa che era notte fonda, con diversi litri di vino in più e un dente di meno. Che fine avesse fatto non lo ricordo”, scrisse Achille Campanile. Quando è sparito tutto ciò non si ha certezza.
La prima puntata della serie sui piatti romani messi in disparte è dedicata al picchiapò (la potete leggere qui), la seconda invece alla pastipane o sugnipane (la potete leggere qui), la terza parla della Gianna (la potete leggere qui), la quarta alla ciofella (o carciofella – ecco l'articolo), la quinta alla vignarola (qui per la lettura); la sesta ai quaresimali (la trovate qui); la settima al pecorotto (che è qui in tavola), l'ottava alle copolle con le ova (la trovate qui), la nona la stracciatella (ecco la ricetta).