Henrik Ibsen - foto via Getty Images

Roma Capoccia

Un ozio che non è perdita di tempo, Henrik Ibsen a Roma

Andrea Venanzoni

Il celebre drammaturgo norvegese, dopo un fallimento professionale a Christiania, decide di lasciare la Norvegia per cercare nuove ispirazioni e rigenerare la sua creatività. Ed ecco che sbarca in Italia, dove rinasce grazie a Bernini e Michelangelo

Dopo il doloroso fallimento dell’esperienza di direttore del teatro di Christiania, il grande drammaturgo Henrik Ibsen, tanto amato quanto avversato nella sua patria Norvegia, comprese che era per lui necessario abbandonare il paese scandinavo e sperimentare nuovi ambienti. Per trarne ispirazione, certo, ma soprattutto per riappropriarsi della dimensione creativa e della sua stessa esistenza. La disillusione non riguardava, infatti, soltanto il fallimento artistico e professionale ma l’atteggiamento generale che pervadeva la società norvegese: una frenesia industriale, commerciale ed economica, che portò Ibsen a rilevare, con dolente e sconsolata presa di coscienza che “il mio figlioletto non apparterrà mai a un popolo la cui aspirazione è diventare inglesi invece che esseri umani”.
 

Inevitabile, stante questa premessa, che il drammaturgo fosse ormai orientato a viaggiare per lasciarsi alle spalle la vita norvegese. L’Italia fu un approdo naturale. A differenza di molti altri artisti, filosofi e letterati che in Italia, e a Roma in particolare, avevano cercato e trovato parziale approdo di entusiastica contemplazione del passato e delle bellezze storiche e artistiche, Ibsen, animo inquieto, tormentato, affascinato dalla dimensione naturale, selvatica e dal ruggire della follia, a Roma trova un cosmo rutilante e abbacinante di stili preziosi ma caotici, una selva di erbe incolte che ruminano lungo la dorsale dei marmi e dei templi.
 

In Bernini e in Michelangelo, nelle loro opere, nei loro tormenti, vede e scorge la sua stessa inquietudine, quella vertigine di follia che caratterizzerà le sue opere. In Italia percepisce armonia dei colori, spunti naturalistici, e la campagna romana, i Castelli, dove pure spesso si recherà, costituiranno fonte inesauribile di spirito vitale e magnete per cesellare il suo stile. Giunge a Roma nel giugno del 1864, anni di transizione per l’Italia che va facendosi unitaria e per la stessa futura Capitale che in quegli anni è come sospesa in un limbo grigio di attesa e di tensione che sarebbe poi culminata, anni dopo, nella presa della città e nel seguente plebiscito.
 

Ibsen a Roma frequenta la folta comunità scandinava, danesi, norvegesi e svedesi che si raccolgono attorno al “Circolo Scandinavo” di palazzo Correa e frequentano le trattorie di Trastevere, risalgono i colli, scrutano i fori e le chiese che svettano lungo la linea d’orizzonte. Non ha floride finanze e le ristrettezze, unitamente a difficoltà con la lingua italiana, che avrebbe iniziato a studiare qualche mese prima, inizialmente lo relegano a uno stato emotivo quasi periferico: prende in affitto una piccolissima casa, a via Capo le Case. Viene quasi subito raggiunto da moglie e figlio, con i quali abbandona la città per le torride estati, cercando riparo dalla calura ai Castelli romani: Genzano, Frascati, Grottaferrata. La famiglia Ibsen soggiorna in lussuose e sfarzose dimore aristocratiche che ottiene in locazione per somme irrisorie, grazie anche alla intercessione di amici bene inseriti nel tessuto cittadino di Roma e dei Castelli.
 

Affascinato dall’affastellarsi di stili, barocco, gotico, classico, Ibsen ama stendersi sull’erba e contemplare il cielo e le rovine e i ruderi e guardare i pastori transumare con le loro greggi. Figlio e moglie fanno lo stesso, spesso visitatori della naturalistica bellezza della via Appia e dei suoi tesori storici. “Talora me ne sto mezze giornate disteso fra le tombe della Via Latina o sull’antica Via Appia e credo si tratti di un ozio che non è proprio una perdita di tempo” annota il drammaturgo. Ama il vino, l’atmosfera popolana, fumosa e chiassosa delle trattorie, il cibo romano. E a Roma, dopo essersi risollevato dallo stato di disillusione, dalle difficoltà economiche e ormai integrato nella città, compone “Brand” e inizia la stesura del capolavoro “Peer Gynt”.
 

Dopo il primo, assai lungo soggiorno, che sarebbe durato dal 1864 al 1868, Ibsen e la famiglia tornano a Roma nel 1878. Prendono, per poco tempo, casa in via Gregoriana, ma poi tornano, sia pure in altro appartamento, a via Capo le Case, in un tratto che oggi è via Francesco Crispi. Riconoscibile per una targa apposta in corrispondenza del civico numero 55.

Di più su questi argomenti: