James Joyce - foto via Getty Images

Roma Capoccia

Una città di spettri e fonte d'ispirazione: James Joyce a Roma

Andrea Venanzoni

Per lo scrittore la Città eterna fu sede di intense riflessioni che avrebbero avuto un peso notevolissimo nello sviluppo della sua opera e nel germogliare dei suoi interessi

Se per Giorgio Manganelli, la città di Roma aveva assunto le fattezze ombrose della figura mitografica del labirinto, da sempre presenza fondante della poetica del Manga, per James Joyce la capitale fu epitome dei reticoli, delle ragnatele e degli spettri che, al pari di specchi, sarebbero stati capaci di rimandare, riflettere e connettere tra loro pulsioni inespresse e forme latenti della sua stessa personalità. Sede di intense riflessioni che avrebbero avuto un peso notevolissimo nello sviluppo della sua opera e nel germogliare dei suoi interessi, come quello per la condizione sociale irlandese e per la politica attiva, entrambi mutuati per paradosso proprio durante i giorni romani. Merito di aver saputo scandagliare nel pozzo stratificato e luminescente dell’opera di Joyce, va ascritto a Enrico Terrinoni, uno dei massimi esperti a livello internazionale dell’autore irlandese: Terrinoni, nel suo “Su tutti i vivi e i morti”, edito da Feltrinelli nel 2022, passa al setaccio le corrispondenze romane di Joyce.
 

In particolare, e con operazione non tentata prima in Italia, Terrinoni è abile nel dimostrare come sia plausibile ritenere che alcuni snodi narrativi, alcuni aspetti salienti, la caratterizzazione stessa di determinati personaggi delle principali opere dell’autore irlandese presentino un forte debito con il soggiorno di Joyce a Roma. Joyce arrivò nella Capitale nel luglio del 1906, prendendo casa a via Frattina, con la moglie e il figlio. E nella città eterna, dove era giunto perché attratto dalla miglior paga di missione per il settore estero dell’istituto di credito per cui lavorava in Irlanda, trascorse sette mesi e sette giorni. Numeri estremamente ricchi di simbolismi.
 

A Roma, Joyce ammira, come è inevitabile che sia, lo splendore dei panorami, delle opere d’arte, delle Chiese, ma coltiva del pari un ambiguo rapporto con il misticismo e con l’esoterismo, affascinato dalla figura e dal pensiero di Giordano Bruno. Si commuove pensando a Shelley, di cui rimira la targa apposta in onore e memoria. Roma è città di spettri. Di una insondabile morte che si fa presenza. La memoria di chi l’ha popolata, vissuta, amata, per chi l’ha attraversata come una stella cometa, è viva, forte, permea i marmi e gli steli d’erba. Non per caso, qui Joyce redigerà il capitolo conclusivo di “Gente di Dublino”, dal significativo ed evocativo titolo “I morti”. Proprio in quel capitolo, appare la meravigliosa, rivelatoria frase che sembra lasciar trasparire l’enigmatica personalità di Joyce; "assenza, la forma più alta di presenza".
 

Durante i mesi romani, Joyce si interrogherà a lungo sul senso profondo e devastante del tradimento. Emotivo e relazionale, poiché egli stesso finirà al centro di uno scherzo crudele di amici irlandesi che gli faranno credere di essere stato tradito dalla moglie, ma anche politico, nella figura di Charles Stewart Parnell. Le ossessioni e le paure nutrite da Joyce saranno immerse nel lavacro di Roma, che finirà con l’operare quale potente esorcismo e come strumento di catarsi profonda. Il rapporto con la religione, visto anche il maturare del suo avvicinarsi al socialismo e Joyce intratterrà corrispondenza con socialisti italiani tra cui il fratello dell’economista Labriola, nella coltre profondamente spirituale ma anche, del pari, istituzionale e monolitica del cattolicesimo a Roma, giungerà a una crisi consapevole. Il clericalismo per Joyce si renderà spettro di dannazione, tanto da costituire ai suoi occhi una notevolissima colpa dei suoi amici, colpevoli in questo senso di aver tradito gli ideali e le aspirazioni. Il reticolo laocoontico dei tradimenti, come appunta con grande acume Terrinoni, diventerà saliente nell’ordito narrativo delle opere di Joyce, a partire da “Finnegans Wake”. Queste interconnessioni, queste forme scintillanti di interazioni da cui balugina la vita stessa, rappresentano uno dei più forti lasciti concettuali di Joyce. “Le storie sono fatte di interazioni, e quel che vediamo nasce da un “impatto tra il nostro vedere e l’oggetto sotto osservazione. Quando mutano le condizioni dell’osservazione, mutano insieme sia il soggetto vedente sia l’oggetto intravisto”. In un eterno labirinto rivestito di specchi.

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