Roma Capoccia
Ascelle, pizza rossa, sangue, curry, crack... La città degli odori
Annusando Roma per scoprirne l’indefinita essenza. Viaggio olfattivo dal centro al prenestino, una babele di puzze
Tra i neon, le viuzze. E spezie africane. E urina rinsecchita e lenzuola imputridite da sudore e pioggia, lampi di cardamomo. Dispersi a raggiera: motel, hotel, pensioncine daily-use, escrementi, profumi dozzinali, accattonaggio, cartoni, vino in cartone, profumi meno dozzinali, scaffali vuoti e vetrine con una scarpa sola, money-transfer, museo di antichità romana, profumi pregiati, rovine, via Gioberti, solustro rossino di gemiti, cuoio e l’aroma dell’AIDS, giardino incolto e ocra, dragoni in cartapesta. Qui si dorme. A poco prezzo. In compagnia di gemiti e abissi odorosi. Sciacquarsi il volto, nel bagno piccolo. Sporco. Puzzo di spurgo. Fetore lancinante che risale dalle tubature. Virgilio nel girone dei miasmi. Metropolitana. Altro treno, dopo un giorno in treno. Si vive di inutili paradossi. Al sole. Gloria delle caldarroste. In estate. Brezza fritta. Fast-food e cibo etnico uniti in sinfonia imperscrutabile. Matrimonio dei sensi. E degli odori. Rogo sul braciere ma senza Giordano Bruno. Mille voci, mille accenti, mille dialetti, mille lingue, mille aromi. Una babele transumante nella propria insofferente indifferenza. Tutto attorno, globalizzazione olfattiva. Ascelle. Acido. Ascelle acide. Globalizzazione delle ascelle. Ascelle non lavate ma profumate e avvolte da spettri di profumi costosi elargiti su carni prive di doccia. Ancora peggio. Turisti in canottiera. Tra metropolitana e piazza di Spagna. Alchimia stordente. Puntuti afrori. Lezzi infernali. Creme anti scottatura. Piedi in ciabatte. Piedi al cloruro di potassio e solfato di magnesio. Spazzatura. Sacchi neri. Degenerazione purulenta che si inarca tra i sensi. Cadavere, ma senza morte. O con la morte, ma non umana. Non qui. Carcassa di topo. Di gabbiano. Urina infetta. Urina copiosa e lasciata marcire. Urina come affresco intangibile penetrato nel marmo e sul selciato. Ma più in là, tra il Tevere e Campo de’ Fiori e poi giù verso il Portico d’Ottavia, pane fragrante, zenzero, cannella, pizza rossa che scrocchia e spande languore, caramello, carciofi gratinati, carciofi fritti, ciambellone caldo, cucine popolane con finestra aperta sul mondo. E sull’altro greto del Tevere, il guano, guano autunnale steso per strada e foglie marcite, pizza bianca, focaccia, polvere, polvere di faldoni processuali, formaldeide di ospedali, formalina di reperti, borotalco, saponi. Poi, via. Serpente metallico inghiottito dalla oscurità iridescente. Ventre di Roma. Infiltrazioni acquitrinose. Annunci radio sgangherati, in pessimo inglese di Tor Marancia. Comitive nomadi convincono i viaggiatori che non popolano il migliore dei mondi possibili. Di nuovo in stanza. Di nuovo via dalla stanza. Per cena. Cumino. Senape nera. Via Giolitti. Fieno greco. Nigella. Chiodi di garofano. Via Principe Amedeo. Curry. Curcuma. Coriandolo. Via Rattazzi. Allontanarsi. Pepe. Menta. Agnello. Via di Acqua Bullicante. Pollo. Zafferano. Via Anacapri. Senape. Paprika. Via Tor de’ Schiavi. Un locale di scarse pretese. Mangiare in silenzio, da soli, velocemente. Salgari sul tram 14. Fendere la Prenestina e Mompracem, giù lungo la dorsale orientale di una città più oleosa di un cancro. Aneto. Levistico. Carrellini spinti a zig zag tra i cassonetti della spazzatura. Aglio. Cipolle. Maiale arrosto. Transilvania al crepuscolo. Sottopassi riverniciati di graffiti e pessima musica techno. Rapper di Centocelle, provincia di Bucarest. Sfogliare un quotidiano, circondati dal mondo ridotto a dimensione di tram. Ennesimo morto nel fiume. Storia anonima, ma sensazionalistica. Porno per cuori anneriti, come i volti nei campi attorno la Casilina. Di cosa odora la pornografia? Di Roma, probabilmente. Di questo universo esploso, di questo cosmo magmatico imbottito di spezie e di esistenze disintegrate. Quel maglio puzzolente che ti frattura le narici. Dipinto esploso di Turner. Corpo senza sesso. Indefinito. Tuttiquei corpi fluttuosi ripescati dal Tevere. Ancora oltre. Nella intersezione tra spirito popolano e nichilismo urbano. Sangue. Fresco. Marcescente. Rinsecchito sotto il peso del sole. Viale Palmiro Togliatti. Plastica. Crack, con quel tanfo di plastica bruciata. Gomma. Gomma annerita e bruciata. Preservativi inaciditi da un tempo scandito dallo sperma. Centro Carni comunale. Foglie. Putride. Fecali. Escrementi. Animali. Umani. Di umani tornati allo stadio animale. Hobbes al Quarticciolo. Il cielo si è incupito. Caino a Tor Tre Teste. Una sinfonia per colpo di pistola. Eccola la morte, degli umani. Rumore sordo. Ma perché poi, sordo. Si sente, si sente benissimo. Si sente la eco. Si sente il dolore. La bruciatura trafitta, e l’aria impegolata di polvere da sparo. Si sentono le voci. Le urla. Le sirene. Lampeggianti. Blu. Il gessetto sull’asfalto. La vita a sagoma. Numeri. Punti. Triangolazione. La pelle greve di poliziotti a corto di deodorante e con troppe notti via da casa sulle spalle. Geometria euclidea del crimine e dei lezzi. Ombra evaporata nei fumi dell’orizzonte. Giorno seguente. Alba. Rossina e arancio. Dopo una notte placida, a sentire gente fare sesso nella stanza accanto.Ci si alza dal letto. Ciancicati come calzini dopo una settimana di lavatrice. Sbadiglio. Un caffè. Alla turca. Sa di merda. Odora di merda. Forse è merda. L’orizzonte delle ville urbane, pollini a spasso nel vento. Mandala di silenzi. Rose. Rosse. Bianche. Agrumeto, così intensa quell’arancia che solletica le narici. Con vista su un’alba infinita e dipinta di lucori perlacei. Tibet. Di Roma. Verde. Monastico. Cori gregoriani. Fumigante bellezza d’assoluto. Raccoglimento. Liturgico. Quelle panche. Legno. Anche la solitudine, qui, ha senso e un suo profumo. Ha dignità. I marmi. Alabastro. L’assenza, con i suoi aromi insondabili. Il muraglione a picco su via Marmorata, odore di muschio e di pioggia. Evanescenza di una città. Prismatica. Riflessa dai vetri e dalle pozze, nella sua fine. Nella sua apocalisse in dissolvenza e cinta di odori.