Roma capoccia
Pronti a consegnarci prigionieri di un'altra triste estate romana
Il caldo, i turisti, l'evasione. Fenomenologia di una città che in estate si trasforma
L’asfalto sembra friggere come bacon su una piastra infuocata, scene da ristorante tex-mex nel profondo di un deserto ocra con sottofondo di “Waiting for the Miracle” di Leonard Cohen; ma non siamo in Arizona, né sotto il cielo di rame del Texas, qui siamo sulla Prenestina, dove ogni incrocio assolato sottende infinite conformazioni di calura e di afa che si irradiano silenziose, ma letali, lungo le dorsali urbane di viale Palmiro Togliatti, dell’Acqua Bullicante e del Pigneto, fendendo Torpignattara e dove casette e casine e villini geografici incastonati giù sulla Casilina e poi lungo il Mandrione si rendono epopea tufacea da pueblo messicano, come in un film di Sergio Leone, ma senza Gian Maria Volonté né Clint Eastwood.
Siamo alle porte dell’ennesima estate. Triste estate romana. Non fatevi ingannare dagli altisonanti bargigli da desperados di cinema in piazza ed eventi culturali e Tiberis e festicciole messe su come ultimo luculliano pasto del condannato e mesto ciabattare popolano alla ricerca di refrigerio o grattachecca, al calare della prima tenebra, quando il vociare confuso di torme di turisti alle prese con pessime carbonare instagrammabili si spande nell’aria immota e immutabile. Al volgere della stagione, climatica, con questo caldo che inizia a germogliare lungo le strade, nei cubi del Lungotevere, tra i giardini e le rose, nel tepore soffuso, prima languido poi gelido, delle catacombe e delle chiese, si rimirano in beata estasi i capolavori affrescati e dipinti e scolpiti prendendo commiato dal solustro urticante che promana da fuori, dal mondo, dalla Roma ostaggio dei turisti: molto meglio prendere aria qui che in centri commerciali popolati come Calcutta, fermarsi supplici, per la sete, di acqua e di metafisica, lungo le navate plumbee e fiocamente rischiarate da un carnicino sfarfallare di candele.
Contrariamente a quanto si possa pensare Roma non è città che in estate si svuoti. Un po’ la pecunia languente, con scarse alternative e torridi momenti ferragostani spalmati sulle sabbie incandescenti di Capocotta e poi a sera ritorno a Roma, olezzanti di salsedine, pomodori con il riso, creme abbronzanti e con una aura iridescente di fiamme, per tutto il sole accumulato durante il corso della giornata. Un po’ per i ritmi di lavoro, un mondo globale, capitalismo 24/7, come direbbe il buon Jonathan Crary che ha pubblicato un libro per Einaudi dal medesimo titolo, “24/7”, e insomma si parte quando si può, quando il piano ferie burocraticamente vistato e approvato ti concede quei sette, dieci giorni di emersione dalla apnea. In alcuni quartieri, quando si parte, si osa ancora salutare il vicino di casa, sia per sfoggio della propria partenza, sia per gettare l’ancora di una qualche sicurezza di vigilanza domestica ed evitare che la vacanza sia funestata da improprie violazioni del domicilio. Furti, certo, ma ormai pure occupazioni di casa, nei rioni popolari, con la poco piacevole prospettiva di partire e di tornare poi senza più una casa.
C’è poi il capitolo dei turisti. Invadono Roma, pure a luglio, pure ad agosto. Li vedi, ansimanti, schiumanti, dalle pallide carnagioni quasi grigliate dalla palla di fuoco chiamata sole, li scruti mentre attendono, senza speranza, improbabili mezzi pubblici che forse sferraglieranno loro davanti, raccogliendoli, con tempi da era geologica. A volte, forse confusi e arsi dal caldo, non sanno nemmeno dove andare, girano su loro stessi, una volta smarrita quella unica certezza topografica che può essere il Colosseo o piazza di Spagna. Si affollano lungo le Mura Vaticane, dove il sole spiomba senza alcuna pietà. Indossano berrettini, asciugamani bagnati, caftani da viaggio alla Mecca o copricapi arabeggianti da ritirata nel deserto, e a insidiarli non è solo il cielo ma pure la terra, con le mura e le strade che rilasciano fiumi incendiati di calura. Comprano acqua da venditori improvvisati e abusivissimi, con monolitico iceberg dalla questionabile consistenza igienica piazzato nel mezzo della plastica, e pagano una singola bottiglia quanto una cena a Dubai in compagnia di Davide Lacerenza e Filippo Champagne. I romani li scrutano, beandosi della loro ingenuità e con un moto di filiale compassione a gesti gli domandano ‘”ma che state a fa’?”. Solidarietà umana tra prigionieri. Prigionieri di una triste estate romana.