Piazza di Spagna dopo la protesta del collettivo "Bruciamo tutto" contro i femminicidi - foto Ansa

Roma Capoccia

La vernice ecoterrorista sui monumenti di Roma, una città sconfitta

Andrea Venanzoni

La capitale colpita dalla vernice "lavabile" o "removibile" lanciata da svalvolati socialmente impegnati incapaci pure di parlare italiano, se non attraverso colate di neologismi e di supercazzole, mentre la politica dormicchia in una sorta di stato di trance

"Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo

e più alto del regale sito delle piramidi, tale che

né la pioggia corroditrice né l’Austro sfrenato

potrebbero distruggerlo, né l’innumerabile serie

degli anni e la fuga delle stagioni."


Se Orazio avesse dovuto ambientare questo frammento delle sue odi nella Roma dei giorni nostri, avrebbe dovuto aggiornare i paradigmi di resistenza del monumento e gli elementi a cui sarebbe dovuto sopravvivere. Avrebbe dovuto aggiungere la vernice “lavabile”, che poi in realtà è “rimovibile” e a pensarci bene su certe superfici, in particolare su quelle porose e si pensi al travertino dei basamenti, non è nemmeno così rimovibile. Lo sanno bene ormai i monumenti romani, e non solo quelli; pure le opere d’arte stipate nel chiuso claustrale dei musei e delle gallerie. Uno stillicidio di narcisismo pseudo politico, di svalvolati socialmente impegnati incapaci pure di parlare italiano, se non attraverso colate di neologismi e di supercazzole, che aggrediscono le bellezze capitoline, sottoponendole a lancio di vernice, a martellate, a liquidi colorati liberati nell’acqua delle celebri fontane di Roma. Ormai non conta più nemmeno il messaggio che vorrebbero veicolare, anche perché non lo si capisce annegato come è sotto quella coltre di nevrosi semantica. Possono essere transfemministe avvelenate o estremisti climatici, ormai ciò che conta è il danno che arrecano e il grado di indignazione suscitato.
 

Ultima in ordine di tempo, sotto il sole di rame di Piazza di Spagna, precisamente sulla celebre e celebrata scalinata di Trinità dei Monti, l’esplosione di vernice rossa per sensibilizzare sul dramma dei femminicidi. Questo è ciò che si può dire traducendo dalle sconnessioni linguistiche visto che non riescono nemmeno a dire “donne”, se non inserendo il termine in uno scioglilingua inclusivo e psicotico. Ironico pensare che le esagitate in questione, c’era pure qualche lui là in mezzo, abbiano avuto tutto il tempo di posizionarsi e di far colare, mentre si videoriprendevano, la vernice di colore rosso. E pensare che in tantissime  occasioni le solerti forze dell’ordine e la polizia locale sono state solite allontanare in tempo reale turisti e passanti colpevoli di essersi seduti sulla scalinata a sgranocchiare un panino. Beh, vuoi mettere il bivacco con il vandalismo? L’immagine della scalinata lordata, interdetta al pubblico con il nastro giallo è il simbolo perfetto di una città che non riesce ad avere cura di se stessa e che sembra  incapace di proteggere i suoi beni più preziosi. D’altronde accade anche alle fontane monumentali, dove attivisti e influencer si danno convegno e il cambio, tutti alle prese con il loro spicciolo narcisismo da piattaforma digitale giusto giusto riverniciato, nel caso degli attivisti, con i colori sgargianti della giustizia sociale o climatica o di genere.
 

“Un monumento dipende dal luogo che s’è scelto per erigerlo, dal modo in cui il sole si alzerà e tramonterà sopra di esso, dalla materia che lo avvolge” ha scritto Constantin Brâncuși. Alla elencazione, pure qui, bisognerà aggiungere tristemente, la resistenza alla vernice. Vernice che ogni volta costringe poi la soprintendenza a sopralluoghi e a un dispendio di denaro pubblico per cercare di lavarla via, senza portarsi dietro frammenti delle opere.
 

E la politica? Dormicchia, in una sorta di stato di trance. Dettato dal considerare il metodo sbagliato, certo, ma del pari i messaggi veicolati, e beati questi politici che i messaggi li capiscono, accettabili se non addirittura da lodare. Povera, poverissima Roma, abbandonata all’abbraccio fetido e vischioso di narcisi dalla vernice facile e dai proclami altisonanti e mentalmente aggrovigliati. “La storia erige e demolisce incessantemente le statue di virtù diverse sul piedistallo immobile degli stessi vizi”, ha scritto Nicolás Gómez Dávila. E i vizi sono là, nel lucore incendiato del sole romano, mentre la vernice si secca e si incrosta. Come patina di dolore di una città sconfitta.