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Roma capoccia

Quanto costa non avere un'idea della capitale

Giovanni Belardelli

Il precipizio di Roma sudamericanizzata comincia nella testa della classe dirigente che non sa cosa sia questa città: lasciata senza aspirazioni e progetti strutturali, non è altro che la sede del potere e delle istituzioni

Da qualche settimana nei giornali della capitale e negli inserti romani dei quotidiani nazionali è comparsa una parola che eravamo abituati semmai a leggere in riferimento a Rio de Janeiro o comunque a città non europee: favelas. In quegli articoli, destinati alle cronache locali e dunque sfuggiti a gran parte dell’opinione pubblica del paese, si denuncia l’esistenza in tante zone della capitale di baraccopoli e tendopoli: di favelas appunto, come molti hanno cominciato a scrivere. E’ proprio da queste zone di estremo degrado, piene di rifiuti infiammabili, cucine improvvisate, sterpaglie, che hanno preso avvio i continui incendi che hanno colpito la capitale (in un solo giorno di fine agosto se ne sono contati 45). Tutto questo ci parla dello stato di abbandono in cui versa da tempo Roma – in periferia come in centro, anche nei luoghi più frequentati dai turisti – e della totale inadeguatezza di un’amministrazione capitolina e di un sindaco che ormai non merita neppure di essere nominato. Ma ci parla anche del drammatico declino di immagine subìto da una città che pure è stata decisiva nel segnare la storia e l’immaginario dell’Italia unita, riassumendo in sé ciò che il paese era e voleva essere. 

 

         

Già prima che quell’Italia nascesse – era il marzo 1849, ai tempi della Repubblica romana – Mazzini vi entrava, come poi scrisse, “trepido e quasi adorando”, tanto il mito della terza Roma, la “Roma del popolo”, era al centro della sua idea di indipendenza nazionale. Sua e di tanti democratici, se riandiamo al celebre grido “Roma o morte” lanciato da Garibaldi. Divenuta capitale nel 1870, l’immagine che della città avevano molti esponenti della classe dirigente liberale era tutta proiettata verso il futuro: per Quintino Sella Roma doveva diventare un grande centro internazionale della scienza (abbandonando dunque l’immagine, che tanto piaceva ai turisti del Grand Tour, legata alle vestigia dell’antichità e alle pecore al pascolo tra le rovine, al pittoresco insomma); Francesco De Sanctis la vedeva come “capitale dello spirito moderno”, come un faro di laicità da contrapporre all’“oscurantismo clericale” rappresentato dal Vaticano. 

 
Il monumento a Vittorio Emanuele II in piazza Venezia, inaugurato nel 1911,  nella sua sproporzionata grandiosità risentiva ancora di queste idee ambiziose, forse troppo ambiziose, ma che testimoniavano quale immagine avessero della loro capitale gli italiani del tempo (non tutti, certo, ma la classe dirigente e la gran parte del ceto medio sì). Si potrebbe osservare che in quella immagine c’era anche qualche elemento della successiva esaltazione della romanità in chiave bellicista e colonialista propria del fascismo. Ma nel corso del Ventennio l’immagine della capitale non si riduceva soltanto all’esaltazione tonitruante dell’impero che tornava sui “colli fatali” di Roma. A confermare quanto i processi storici non siano mai di un solo colore, l’immagine e la realtà della capitale in epoca fascista, infatti, ebbe anche caratteri di modernità, attestati ad esempio dalle tante costruzioni dell’architettura razionalista che si lasciano ammirare ancora oggi. Perfino un testimone certo non sospettabile di simpatie per il fascismo, Luigi Pintor, trasferitosi a Roma con la famiglia durante la guerra, ne avrebbe ricordato appunto “i frastuoni e gli odori della modernità”.


Molto di quella idea di modernità ci appare oggi inaccettabile. Non solo ovviamente per il contesto politico in cui avveniva, quello di una dittatura; ma anche per gli sventramenti effettuati per l’apertura di via dell’Impero e di via della Conciliazione (peraltro i lavori, in questo secondo caso, furono completati nel 1950). E tuttavia il regime una sua idea della capitale ce l’aveva. Ciò che non è più accaduto nell’Italia democratica, forse solo con l’eccezione delle Olimpiadi del 1960, che anche grazie al mezzo televisivo rappresentarono una grande vetrina internazionale per la città e insieme per un paese che stava attraversando una crescita economica senza precedenti. Per il resto, l’Italia repubblicana si è caratterizzata per l’assenza di una visione di ciò che la capitale avrebbe dovuto essere o magari, a sinistra, per una sua immagine dimessa e marginale, esemplificata sulle periferie dei “ragazzi di vita” pasoliniani. Con la cosiddetta seconda Repubblica – che nacque a Milano, sia perché fu il prodotto delle inchieste di Mani Pulite sia perché milanese era il suo principale protagonista, Silvio Berlusconi – è stato anche peggio. Oltretutto la Lega delle origini aveva uno dei suoi cavalli di battaglia nella polemica contro “Roma ladrona”. 

 
Fatto sta che da tempo sembriamo non avere alcuna idea o immagine positiva, alcuna aspirazione, legata a una capitale che è vista soltanto come la sede fisica del governo e delle principali istituzioni del paese. E anche per questo, semmai, risente negativamente dei sentimenti antipolitici che attraversano da anni la nostra società. Quanto al governo attuale, il cui partito maggiore ha rigorosamente (e, diciamolo, un po’ anche ridicolmente) imposto ai suoi membri di non usare mai la parola “paese” ma sempre “nazione”, sembra essersi scordato che questa nazione ha una capitale, a cui un tempo gli italiani avevano guardato con ben altri occhi. 
 

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