Roma Capoccia
“Pulp Roma”, la gang bang psico-letteraria di Tommaso Pincio
L'autore scrive un ritratto personale della città eterna per mezzo di una scrittura che travalica i confini della narrativa tradizionale
Polpa slabbrata e intrisa di materia letteraria dentro cui, vermiforme, serpentina, saettante, si snuda agli occhi la sagoma incupita di una Roma che facciamo fatica a riconoscere, principalmente perché nel caos irrisolto di questa sbilenca città non riusciamo più a riconoscere nemmeno noi stessi.
Si fa prima a dire cosa non sia, a procedere cioè per forma negativa, come in barthesiana camera scura, questo ‘Pulp Roma’ (Il Saggiatore), di Tommaso Pincio; non è un romanzo, non è una appendice di altre opere di Pincio, come si premura di comunicare lo stesso autore nelle pagine iniziali, non è un memoir né un saggio antropologico o sociologico.
È tutte queste cose e nessuna, una onda che affastella stracci e cartoni e incontri in una Roma cinematografica che si espande viralmente nei e attraverso i volti dei suoi due attori più rappresentativi, Alberto Sordi e Marcello Mastroianni.
Qui, tra questi sozzi marciapiedi, tra questi geologici ritardi di bus, in questa sinfonia di profumi speziati, in questa bolgia dantesca di volti, nomi, ratti, sporcizia, miseria elevata quasi al sublime del cielo, si rammenta Freud girovago tra i bassifondi e sul Lungotevere, estatico davanti le statue mirabili e in quei marmi, in quel candore puntuto, alle prese con lo sdilinquimento della storia come mito e come forma psichica, e secondo Michel Onfray, ci ricorda Pincio, incanutito il povero Freud alle prese con il mitema incestuoso del ritorno nelle spire della madre.
La madre universale, in fondo, non così lontano dal vero. Si pensi ai grandi russi che sciamarono a Roma, Puškin o Muratov, i quali riconobbero nella fisionomia della città uno spazio quasi fuori dal tempo, esattamente come il libro di Pincio si trasla fuori dai generi e dalla riconducibilità ad un preciso stile.
Borborigmo di linguaggi, persino di dialoghi, con un Vietnam che si incista prepotente narrativamente negli sviluppi memoir, e se prima abbiamo incontrato Hawthorne e James e Dostoevskij alle prese con la sfiancante bellezza di Roma, una città i cui monumenti sembrano essere stati pensati e realizzati, a partire dal Colosseo, per farci apparire piccoli, irrisori, transeunti, insignificanti, si incunea tra le righe del libro un cordone ombelicale con altre opere di Pincio, e da qui l’avvertimento, forse vero, forse falso, forse chissà, che ‘Pulp Roma’ non è da considerarsi una appendice di un altro suo romanzo, e viene subito da pensare a ‘Cinacittà’ (Einaudi), visto che in entrambi si rinviene, tra i personaggi, una Yin e appaiono due Trevi.
Emanuele Trevi, lo scrittore, in ‘Pulp Roma’ che in ‘Cinacittà’ era stato stratificato e trasfigurato nella maschera-persona di un avvocato, sporchissimo ci si tiene a farci sapere. Quindi, non libro su un altro libro, non meta-romanzo che assomma e ingloba come in una pastosa orgia alla ‘Society’ di Brian Yuzna o alla Cronenberg biografie reali, storici passaggi nel ventre di Roma con la fantasia a briglia sciolta, in una gang bang psico-letteraria in cui troviamo pure la genesi di ‘Lolita’ di Nabokov, sporcaccioni francesi di lettere o un William S. Burroughs: piuttosto la spiegazione impossibile della mesmerizzazione, dell’overload totale di chi legge e scrive e si immerge nella coltre putrida di Roma, con un Dostoevskij stremato dalla esplorazione cittadina, sopraffatto, stanchissimo e impossibilitato a scrivere anche una sola riga.
E c’è Gadda, naturalmente. L’intero capitoletto ‘La porta di Acaba’ è una trasfigurazione onirica del gaddiano Pasticciaccio, e ci sono le memorie personali, i flashback, le reminiscenze, di una Roma intima, il ricordo di dove si era il giorno in cui si faceva la dolorosa e sanguinosa storia, il rapimento di Aldo Moro, la sparatoria, la carnografia purpurea di geometrica potenza, in apocalisse quotidiana, pornografica e desolante, raggomitolata nei riferimenti fantascientifici o dark fantasy, considerando che a Roma anche passeggiare lungo via Prenestina o su viale Palmiro Togliatti ti fa sentire come tra le pagine verticali di Paul Di Filippo o del Richard Calder di ‘Dead girls’.