Roma Capoccia
“Il colore del silenzio”, le fotografie di Carlo Verdone all'Auditorium
Non semplici paesaggi, ma scatti che immortalano lo sguardo verso la ferita dell’alto. Una nuova mostra raccoglie le immagini che l'attore e regista romano ha realizzato a partire dagli anni Novanta, legate a una dimensione intima, solitaria e malinconica
Il silenzio è davvero, come scriveva Shakespeare, l’araldo più perfetto della gioia. Perché nella beata contemplazione di un assoluto, di una vertigine, di una felicità, non c’è vera parola che possa esprimerne peso e consistenza.
“Il colore del silenzio” è il titolo della mostra, ospitata dalla Fondazione Musica per Roma e realizzata in collaborazione con la Fondazione Elisabetta Sgarbi e la Milanesiana, di fotografie di Carlo Verdone, in corso all’Auditorium Parco della musica “Ennio Morricone” di Roma e che vi permarrà fino al 2 marzo 2025. L’attore e regista che dismessi i panni cinematografici per un frammento di tempo, il tempo della liberazione dalla incandescente frenesia della vita urbana e della accelerazione del mondo dello spettacolo, con i suoi ritmi e i suoi mitemi, si immerge nel lavacro della natura e della fotografia.
Non semplici fotografie di paesaggi, però. Ma scatti che immortalano lo sguardo verso la ferita dell’alto, verso il cielo, ora turrito e carnicino, esplodente, cosmico come un dipinto di Turner, ora rarefatto e nebbioso, come ellittiche spire della musica ambient di un Brian Eno o di un Philip Glass, influenze aurali ammesse e vivificanti. C’è in quel cielo il bisogno di soffocare in Dio che Cioran invocava nei suoi “Sillogismi dell’amarezza”, in quella tenue nebbiolina che si incunea lieve e quasi giallastra, forse alba, forse crepuscolo di fronde, c’è’ nella esplosione delle nubi bianche e pastose l’ellissi aurale di “Over Clouds” di Vidna Obmana, c’è in quella deflagrazione di rosso, porpora, argento, ocra, un cielo che gronda verso lo scuro terricolo come un pozzo che fissa il cielo, per citare il Pessoa de “Il libro dell’inquietudine”.
Tutto origina da una idea di Elisabetta Sgarbi, nel senso della sistemazione ordinale, del fare degli scatti una mostra, ma le fotografie, la loro cura, il loro senso appartengono del tutto a Carlo Verdone, che le ha realizzate e raccolte a partire dagli anni Novanta, legate a una dimensione intima, solitaria, malinconica, diversa rispetto quella che siamo soliti attribuire al popolare regista in base ai suoi film e ai suoi personaggi. Policromie stordenti che colpiscono, l’occhio che immortala cattura l’ascesi di una goethiana teoria dei colori trascolorata nel e attraverso il cielo: c’è un blu quasi marino venato di nero, c’è il rosso alchemico di ogni sfumatura e nota, c’è l’arancio e c’è il perlaceo, manti di nubi che transumano nel ventre del cielo, c’è il violaceo, e l’ocra e ancora l’oro, in uno sposalizio di cielo e inferno che sarebbe piaciuto a William Blake.
C’è l’arborea cornice che immortala il confine delle cime e del verde, le statue che si stagliano rendendo i monumenti dei silenti Nazgûl ritagliati contro e dentro il grigio cadente, quasi da visionare attenti e rapiti ascoltando la dark-ambient sacrale, liturgica, catacombale del Raison d’être di “The Empty Hollow Unfolds”. Bagliori di luci trascoloranti, caotiche, laocoonticamente intessute le une dentro le altre, in una futuristica proiezione verso nessun punto preciso, in una geografia di senso russoliana, ispirazione futuristica reale di Verdone e che sembra rievocare la copertina del dub industriale di “Greetings from Birmingham” di Scorn, quando cioè Mick Harris affrancatosi dal grindcore cadde in uno spazio privo di tempo, monotono e velocissimo e per questo bellissimo, nella sua luce reiterata.
C’è rivelazione in queste foto, come avrebbe scritto Susan Sontag, rivelazione di un contrasto tra urbano e non-urbano, tra caos e ordine, tra rumore e silenzio, tra integrazione e solitudine, tra il basso finito e transeunte di chi scatta e l’alto, altissimo, di vetta quasi irraggiungibile, del cielo che si apre a ventaglio, come un oceano di silenzio, appunto. Uno dei dischi migliori di Lustmord, progetto dark ambient di Brian Williams, “Heresy”, in copertina reca il dipinto maestoso e romantico di John Martin, “The Great Day of His Wrath”, un cielo contorto, vulcanico e caotico da fine del mondo, da Libro della Rivelazione, e che nei suoni produce un profondo viaggio di sotterranei, segrete, miniere, il contrasto di cui si diceva prima fatto materia oscura. Spirito di questa mostra.