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la mostra
I Farnese nella Roma del Cinquecento
Ai musei capitolini 140 opere: dalle sculture di epoca imperiale ai quadri di Tiziano e Raffaello
Roma. I marmi bianchi d’età imperiale e i camauri rossi del Rinascimento. L’Eros aggrovigliato al delfino araldico, il Dioniso bambino, la Venere dalle natiche sciolte e poi i busti e i ritratti di Paolo III. Alle pendici del Campidoglio, nei Musei Capitolini, angioletti nudissimi si riparano in vesti papaline. “I Farnese nella Roma del Cinquecento. Origini e fortuna di una Collezione” è la mostra che dall'11 febbraio al 18 maggio occupa le stanze di Villa Caffarelli. E che racconta, tra Raffaello Sanzio e Annibale Carracci, il potere pontificio della dinastia Farnese.
Farnese. Patronimico che dischiude sfarzo. Dinastia che tesse storie sacre non meno che erotiche come quella, appunto, di Papa Paolo III, nato Alessandro. Il pontefice che divenne cardinale quando la sorella Giulia (detta “la Bella”), proprio come la Venere Callipigia qui esposta pensò bene di alzare la gonna e offrire le grazie a Papa Alessandro VI. Il Borgia che premiò a sua volta il bel gesto concedendo, per amore sororale, la porpora al di lei fratello. Che da allora il popolo romano (cinico non da oggi) ribattezzò “Cardinal Fregnese” da “Cardinal Farnese”. Con tanto di pasquinata (“Alessandro, tu devi a tua sorella / Giulia il cardinalato, ché la gonna / alzò”).
Ed ecco. Questa fatterello – che nei cataloghi non si trova – dice tutto il non-detto della mostra curata da Claudio Parisi Presicce e Chiara Rabbi Bernard, inaugurata martedì mattina, e pensata come evento di punta dell’anno giubilare. Dice tutto il non-detto del prestigio papalino che, nel secolo della Controriforma (Paolo III fu il papa che convocò il Concilio di Trento), metteva insieme le croci e i nudi. Le Veneri in marmo e le Madonne di Raffaello. In altre parole: Cristo e Dioniso tra reperti archeologici e mecenatismo.
La Collezione Farnese, che alle pendici del Colle si snoda lungo dodici sale nere puntellate di cornici d’oro, era dunque il tesoro del palazzo in Campo de’ Fiori. Là dove ora ha sede l’ambasciata di Francia e dove, al bar Camponeschi, si consumano gli amabili resti della dolce vita romana.
Sviluppatasi sotto l’egida di Paolo III – poi arricchita dai nipoti Alessandro, Odoardo e dall’umanista antiquario Fulvio Orsini – la collezione si nutrì degli scavi nelle Terme di Caracalla. Che nel 1545 – e cioè nello stesso anno del Concilio – restituiva l’Ercole, il Toro e la Flora presto collocati nel cortile del Palazzo. Palazzo al cui interno, invece, opere d’arte erano già i nomi delle stanze: la Galleria dei Carracci, la Sala dei Filosofi, il Camerino del Gran Cardinale, le Stanze dei dipinti sacri e dei ritratti dov'erano la Madonna del Divino Amore di Raffaello e del Papa effigiato da Tiziano (ora in mostra ai Musei).
E tuttavia, ancor prima del Concilio e degli scavi, l’altro propulsore del collezionismo fu la trasformazione urbanistica della città, voluta dal Papa dopo il Sacco di Roma del ’27. Con la Piazza del Campidoglio rinnovata da Michelangelo e coronata dal Marco Aurelio in bronzo trasferito da Piazza del Laterano. Insieme ad altri interventi urbanistici in preparazione del Giubileo del 1550, qui riassunti sulla riproduzione di una mappa del ’55, a suggello del legame tra la dinastia Farnese e Roma. Legame speculare a quello tra cattolicesimo e paganesimo, del resto, che apre la mostra con il ritratto di Jacopino del Conte del Papa in triregno (la tiara estintasi dopo il Vaticano II) e la chiude con il dio dell’Amore avviluppato nelle spire d’un delfino. Passando per il bronzo di Ercole che strozza i serpenti, il ritratto di Socrate del I secolo d.C., e la Venere in marmo che tira fuori le natiche e insegna che il sedere è sempre diverso da sé. Tutto dipende dalla prospettiva.
Una mostra, insomma, su una dinastia e sul suo tempo. Sulla grande Roma cattolica e pagana. Sacra ed erotica. Giacché mentre i riformatori – Lutero, Calvino, Knox e Zwingli – accusavano il cattolicesimo di idolatria, mentre il protestantesimo smantellava le vetrate e le statue con l’illusione di ritornare alla parola pura, Roma ritrovava sé stessa nella sua dimensione carnale. Nell’incontro con la flora, la fauna e il sesso che, come nel Giudizio Universale, avvicinano l’uomo a Dio.