Landscape, circa 1645, di Salvator Rosa (Foto Getty) 

Roma Capoccia

Salvator Rosa a Roma. Quadri, speranze e baciamani

Andrea Venanzoni

La vita romana annoia profondamente il poeta e pittore, tedia il suo carattere poco incline al compromesso e per questo finisce per inimicarsi ecclesiastici, nobili e potenziali committenti, tra cui il potente Bernini. Sarà Carducci a notare come il Rosa abbia trovato pace solo a Volterra

"A Roma c’è solo abbondanza di quadri, speranze e baciamani”. Sarà con questo laconico giudizio che il pittore, incisore e poeta Salvator Rosa si congederà, temporaneamente, da Roma, città che lo ha a lungo ospitato. Rosa, nato a Napoli nel 1615, si trasferì a soli vent’anni a Roma, sotto gli auspici del cardinale Brancacci. Già a Napoli, si era fatto notare per i dipinti dai toni aspri, oscuri e dai soggetti spesso violenti, labirintiche conformazioni di battaglie o paesaggi selvaggi. Nonostante il suo stile si evolva al passare degli anni, la predilezione per una cruda e ctonia, quasi saturnina, raffigurazione delle carni, delle ruvide consistenze degli orizzonti, rimarrà un dato sostanziale della sua pittura. Il suo primo soggiorno romano si protrae per cinque anni, nei quali a Rosa vengono commissionati dipinti come il celebre “Erminia incide il nome di Tancredi”, il cui tocco classicista, intriso di quell’ombra di tenebra che non lo abbandonerà più, porterà a leggere in lui un antecedente concettuale dei Preraffaelliti.

Memorabile la speleologica osservazione in tal senso che Mario Praz ne affrescherà tra le pagine de “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantic”, snudando l’influenza molto forte che Salvator, così era conosciuto in Inghilterra, per solo nome, eserciterà sullo stile “pittoresco” e sui pittori specializzati in giardini, foreste, paesaggi. Nel turbinio di forme e colori e sfumature e chiaroscuri e dettagli lancinanti dei dipinti di Rosa sembravano avanzare, e anticiparsi, le atmosfere cupe dei dipinti di John Martin o i versi romantici e crepuscolari di Wordsworth. La vita romana però annoia nel profondo Rosa, lo tedia: ha un carattere deciso, spigoloso, poco incline al compromesso e per questo finisce per inimicarsi ecclesiastici, nobili e potenziali committenti, tra cui il potente Bernini. Si trasferisce quindi in Toscana, a Firenze ma soprattutto a Volterra. Il soggiorno toscano concilia a Rosa un’aura cupamente esoterica, intrisa di malevole figure, di lunari sabba, di volti stregoneschi, una allegoria da “storia notturna” che telluricamente sonda il male e l’inconoscibile, come ne “La strega”, realizzato nel 1646.

Presso la corte medicea, Rosa si immergerà nello studio dei testi alchemici e occultistici, derivandone la forza espressiva di una pittura forgiata nel magma nero dell’oscurità; incantesimi, antichi rituali, figure maledette realizzate con grande ingegno e abbondanza di particolari e dettagli. Tornò a Roma nel 1649 ed espose, con un certo successo, al Pantheon e tornò al suo primo amore, il paesaggio, ma questa volta carico del segno e del senso dei suoi studi esoterici. Non mancando però di dedicarsi anche alla poesia, che durante la sua vita ebbe discreta circolazione, inimicandogli ancora più persone: i suoi versi vennero usati come modalità virulenta di commento storico-sociale, come nel caso de “La guerra”, una ricostruzione della rivolta di Masaniello, oppure la feroce “L’invidia”, diretta ai detrattori dei suoi dipinti e delle sue incisioni. Rosa, oltre che dal carattere spigoloso, fu anche contraddistinto da vita tormentata; proprio a Roma intesserà una intensa e dolorosa relazione con Lucrezia Paolini, alla quale dedicherà strazianti versi di passione e di sofferenza. La Paolini è donna sposata e la relazione desta profondo scandalo nel cuore della sonnecchiante società romana.

A causa della peste, perderà poi il figlio Rosalvo, una perdita da cui non si riprenderà mai del tutto, inabissandosi in uno stato d’animo ancora più insondabile e nero. Della vita romana di Rosa, si occupò lungamente Giosuè Carducci nel suo articolato saggio introduttivo a una edizione delle opere letterarie, satire, poesie, commedie, del Rosa che vide la luce nel 1860 per l’editore Barbera, di Firenze. E sarà proprio Carducci a notare come il Rosa abbia trovato, relativa, pace solo a Volterra, mentre il contatto disperante con Roma finì, soprattutto dopo il ritorno dalla Toscana, per incupirlo ancora di più, facendolo immergere in una coltre di studio e di lavoro senza speranza alcuna di guarigione. A Roma, Rosa riposa, ricordato da splendido monumento funebre nel cuore della Basilica di Santa Maria degli Angeli, a piazza della Repubblica.

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