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Dopo le bombe

In fuga dall'Ucraina: storia di O., V. e K.. La guerra, la dialisi, un trapianto mancato

Marianna Rizzini

L'arrivo a Frascati, le cure, i giorni alle spalle in uno scantinato buio, il viaggio in pullman attraverso Ungheria e Slovenia

La guerra passa anche per il traduttore del cellulare, quello che O., V. e K., ragazze ucraine arrivate dalla guerra qualche giorno fa, usano per comunicare con i medici che le hanno in cura (essendo tutte e tre dializzate) quando l’interprete non c’è. Non parlano inglese, non parlano italiano, hanno 23, 30 e 38 anni. Hanno lasciato tutto a Chernihiv, la città assediata dai russi per un mese e poi bombardata: tutto e soprattutto i loro affetti (una delle ragazze ha un figlio, ma per fortuna lui è arrivato in Italia con lei), e i fratelli e i padri, al momento al fronte. Il traduttore del cellulare è imperfetto ma basta per cercare di infondere fiducia a chi da giorni l’ha persa e non si sa se e quando potrà recuperarla davvero, racconta Valeria Rossi, responsabile del centro per la dialisi medica San Carlo di Frascati (gruppo Nefrocenter), dove le ragazze hanno ricevuto le prime cure al termine di un viaggio della speranza in pullman durato vari giorni, attraverso l’Ungheria e la Slovenia, con una tappa per ricevere le cure indispensabili a sopravvivere, senza sapere la data del ritorno, assieme a un gruppo di altre donne, madri e non, che hanno trovato accoglienza per loro e per i bambini attraverso la curia vescovile di Frascati (monsignor Raffaello Martinelli) e la comunità di Sant’Egidio.

 

Hanno resistito nell’assedio, le ragazze che due giorni fa, all’arrivo al Nefrocenter con una sorta di documento identificativo al collo, racconta Valeria Rossi, avevano l’aria di chi ha lo spavento nel cuore, ma dall’altro trova nelle poche ore della dialisi un attimo di sollievo, anche se sollievo non è serenità, perché quella è stata rubata dalle bombe. La storia inizia a fine febbraio, il giorno prima dello scoppio della guerra, quando la più giovane tra le ragazze vive ore di felicità e attesa per il trapianto di rene a lungo atteso, senza sapere che cosa accadrà la mattina successiva. Perché la mattina successiva non può più andare in ospedale a essere operata: il conflitto è già realtà. Continua, questa storia, nello scantinato-rifugio buio e freddo dove le ragazze devono adattarsi a una dialisi di fortuna, a giorni alterni come sempre, ma con macchinari trasportati laggiù in fretta e furia, perché è troppo pericoloso curarsi in una struttura non protetta quando la città rischia di essere rasa al suolo. Cominciavano a scarseggiare i farmaci, hanno raccontato.

 

Sono state bombardate scuole, farmacie, reparti medici, hanno detto all’interprete le ragazze, che, senza cure per giorni, presentavano un quadro clinico critico e con scompensi (ipertensione, carico eccessivo di liquidi), quando hanno varcato la porta di quella che sarà la loro casa nei pressi di Frascati, la casa diocesana di spiritualità Villa Campitelli. Si guardavano attorno, senza sapere bene dove guardare. Meno male che non tutte le bombe sono esplose, hanno raccontato, altrimenti i danni già gravissimi sarebbero stati peggiori. E adesso la più giovane, quella che attendeva il trapianto di rene, si rammarica per quell’occasione a lungo attesa e persa in un attimo, e spera in qualche modo di poter entrare in una nuova lista d’attesa, qui in Italia. Gli assistenti sociali che le hanno seguite all’arrivo sperano che la realtà più raccolta di Frascati, rispetto a Roma, aiutino un processo di integrazione al momento reso più difficile dalla barriera linguistica (anche per il figlio quindicenne di una delle tre donne – la cui adolescenza non poteva ricevere shock peggiore).

 

E viene in mente, a noi, a quanto si pensava ai danni subiti dagli adolescenti in Dad, nei due anni appena trascorsi, e vai a pensare che invece della liberazione sarebbe arrivata, per questo ragazzo, la guerra e poi la fuga in un paese sconosciuto, senza amici e senza casa. A chi è fuggito invece, racconta chi ha parlato con le ragazze, viene in mente l’immagine di un padre o di un fratello con il fucile in mano, come in un film su una guerra d’altri tempi, solo che la guerra non è d’altri tempi. Sono ragazze bellissime, dice Valeria Rossi, con la paura negli occhi. Non parlano molto, e il primo giorno di dialisi, l’altro ieri, nessuno sapeva che cosa facessero prima che la guerra piombasse su vite normali, dove il problema maggiore era quello di salute. Che è quello che resta, e bisogna considerarla una fortuna: noi almeno siamo qui a curarci, dicono quei volti a chi li guarda, intuendo, dietro agli sguardi, un abisso di smarrimento da cui ora, volenti o nolenti, le tre ragazze dovranno risalire. 
 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.