Dialoghi sulla guerra 2
Niall Ferguson e David Petraeus parlano di cosa Putin ha ancora da perdere (molto)
Lo storico scozzese e il generale americano, ex capo della Cia, dialogano di strategia militare, di imperi, di linee rosse, di armi nucleari e della Seconda guerra fredda
Mariupol è “l’Alamo ucraina, si combatte fino a che l’ultimo uomo a difesa della città resta in piedi”, dice David Petraeus, il generale americano ed ex capo della Cia che ha guidato le operazioni in Iraq e Afghanistan – il generale-intellettuale che ci fece capire, proprio in Iraq, quanto fosse strategico il fattore umano nelle guerre, e che una gran forza militare che non sa conquistare cuori e menti perde la sua potenza. Sullo Spectator in edicola oggi, Petraeus dialoga con lo storico scozzese Niall Ferguson, uno dei professori-intellettuali più brillanti di questo secolo: parlano di strategia militare, di imperi, di linee rosse, di armi nucleari e della Seconda guerra fredda. Ferguson chiede a Petraeus di dare i voti alla Russia e alla Ucraina in questa prima fase del conflitto, e il generale boccia, come è ovvio, la prima, e promuove entusiasta a voti pieni la seconda: “Mosca ha capito che volendo attaccare da tutte le parti non attacca niente, e infatti ha ottenuto molto poco rispetto alle attese finora. Il comando russo, il controllo e le comunicazioni russi hanno fallito, ed è il motivo per cui gli stessi generali devono andare sul fronte, dove vengono uccisi dai cecchini ucraini molto esperti. Per quel che riguarda i prossimi piani russi potrei dare il voto ‘incompleto’, vogliono provare a rafforzarsi laddove hanno ottenuto un successo modesto”. Gli ucraini al contrario sono stati “galvanizzati da un leader churchilliano, il presidente Zelensky ha seguito idee grandiose e le ha realizzate, le ha sapute comunicare benissimo agli ucraini e al resto del mondo, e ha seguito passo a passo l’implementazione concreta di queste idee. E, quarta cosa, ha capito come ridefinire queste grandi idee ancora e ancora”.
Ora inizia una fase molto delicata, “un momento pericoloso”, lo definisce Petraeus, “perché spostare tutte le forze verso il Donbas non è affatto una cosa semplice: gli ucraini hanno bisogno di tutti i mezzi di trasporto possibili e non hanno una enorme capacità di logistica rapida, in un compito che sarebbe complicato per qualsiasi esercito”. Ma i russi, in questa strategia alternativa, possono vincere?, chiede Ferguson molto scettico. “Mi sembra che la cosa che i russi sanno fare ‘bene’ – risponde Petraeus – è distruggere tutto quello che incontrano sulla loro strada. Possono continuare così nel sud est e Putin potrà dire: ‘Era quello che volevamo fin dal primo momento’. Ma sono d’accordo con il tuo scetticismo, gli ucraini hanno la ragionevole possibilità di non doversi soltanto difendere, ma anche di poter contrattaccare, come hanno già fatto a est”.
Ferguson introduce un altro elemento di analisi al dialogo: “E’ una battaglia tra un impero e una nazione. Ma non posso non notare che molti dei combattenti per i russi a Mariupol sono ceceni, mentre attorno a Kyiv c’erano molti uomini provenienti dal confine russo-cinese: è un esercito coloniale”. Petraeus recupera uno slogan noto e dice: “Putin sta cercando di make Russia great again da molto tempo, ma paradossalmente, invece che riassemblare l’impero russo o l’Unione sovietica, scegli tu quale, ha fatto molto di più per make Nato great again di qualsiasi altra cosa mai accaduta e fatta dalla fine della Guerra fredda”. Putin ha lanciato una guerra novecentesca e gli sta andando male, dice Ferguson, e potrebbe persino andargli peggio nel Donbas, “ma non riesco a immaginare che questa sia la fine della storia, che Putin viene rimosso, anzi trovo molto più facile immaginare che Putin alzi ancora di più la tensione, usi armi chimiche o armi nucleari se dovesse perdere la guerra convenzionale. Anche tu sei preoccupato?”. Se possibile, il generale è ancora più preoccupato dello storico, dice che ha molti colleghi che gli dicono di cambiare il nome alla “no fly zone”, che sa di confronto diretto alla Russia, in “corridoi umanitari” e poi bloccare i cieli, ma Petraues è convinto che non servirebbe: “Se metti nello stesso spazio aereo un mezzo americano e uno russo, il mezzo russo perde. E questo alzerebbe il livello del confronto in un’area in cui tutto può accadere”.
Putin nell’angolo fa paura quanto il Putin arrembante, “dobbiamo stare attenti a non fargli credere che non ha più niente da perdere”, perché a quel punto sarebbe disposto a tutto, e invece Petraues pensa che Putin abbia “ancora molto da perdere. Cosa potrebbe portare il presidente russo a un negoziato? Non le perdite sul campo, pare del tutto indifferente al numero di giovani soldati che sono stati uccisi o feriti gravemente. Quel che lo deve preoccupare è il danno fatto all’economia russa, alla comunità degli imprenditori, al sistema finanziario, al suo inner circle. Queste perdite sono così significative, devono essere così significative che a un certo punto persino lui non potrà non riconoscere che continuare la guerra porterebbe a danni irreparabili per la Russia”. Il generale a questo punto cerca conforto nello storico, gli dice che è preoccupato ma che crede che le armi nucleari costituiscano ancora una linea rossa invalicabile, persino per un leader che ha valicato i confini di un paese sovrano e lo ha invaso, che ha valicato anche la linea rossa dei crimini di guerra, con i suoi massacri indicibili. Sarebbe troppo persino per Putin, dice Petraeus, che applica al presidente russo un rimasuglio di razionalità anche se tutte le nostre categorie di pensiero applicate a lui finora si sono rivelate inadeguate. Ferguson non consola e non rassicura, va secco al dunque: se in tre settimane la Russia usa armi tattiche nucleari vicino o proprio su Leopoli, che cosa faremmo? Il generale non si sbilancia, dice che ci troveremmo in un terreno “molto infido”, s’appella alla cautela dovuta agli ex funzionari di governo, ripete quel che ha detto anche il presidente Joe Biden: ci sarà una “riposta severa”. Poi dice qual è il suo principio nei confronti diretti: “Non puoi competere in una corsa verso il basso quando si tratta dei tuoi standard morali su un campo di battaglia. Diventa sempre controproducente, ed è sbagliato”. Se loro usano armi atomiche quindi non dobbiamo usarle anche noi, dice il generale, che ha nel suo dna culturale la superiorità morale degli americani rispetto ai suoi nemici, noi siamo meglio, noi impariamo dai nostri errori, noi non corriamo verso il basso. Certo, “molte remore che ci facciamo oggi inizierebbero a cadere”, aggiunge, e forse si inizierebbe a fare sul serio nello sfondare l’economia russa, in ogni suo settore, “cominciando a sanzionare ogni componente della catena di approvvigionamento che rende operativi questi settori. Lo abbiamo già fatto per l’industria militare, bloccando i microchip”.
Ferguson non ribatte, non dice ma come, la risposta severa è comunque un’azione potente sì ma dilatata nel tempo, cambia proprio argomento. Parla di Cina. E la domanda che pone al generale riguarda la deterrenza: “Quando guardi a quella che viene definita la Seconda guerra fredda, che cosa vedi? I cinesi dicono: non mi conviene inimicarmi l’occidente, getto via i miei piani di riconquista di Taiwan? Oppure i cinesi dicono: ora abbiamo capito meglio come si muovono gli occidentali. Fanno guerriglia economica quando gli altri fanno guerriglia militare. Possiamo imparare la lezione e vincere laddove i russi invece hanno perso?”. Il generale dice non tanto quel che hanno imparato i cinesi, quanto quel che si è imparato in questi 50 giorni di guerra: le sanzioni possono essere molto dure e molto debilitanti per un paese che le subisce; l’America è un partner affidabile, oltre che il leader del mondo accidentale (qui Petraeus ringrazia ed elogia anche Londra); soprattutto abbiamo visto un popolo pacifico prendere le armi. Petraeus ricorda la sua missione in Iraq, l’accoglienza del risveglio, ché gli iracheni non amavano gli americani ma detestavano Saddam Hussein, e invece guardate l’Ucraina oggi “l’idea di dover combattere in un paese dove tutti ti odiano e dove ognuno fa quello di cui è capace per impedirti di rimanere mi continua a girare nella testa”. La resistenza ucraina è anche questa, è quello che sarà, non solo quello che è stato.