la regina delle sanzioni
Putin escluso dai funerali di Elisabetta II è la risposta coreografica di chi non è disponibile al già visto
Il leader del Cremlino a Westminster sarebbe stata una legittimazione dell’inaudito. Viceversa, abbiamo assistito a un gesto politico che corona l’imperturbabilità protocollare di un lungo regno e che ha qualcosa di speciale
Alla fine i funzionari della Federazione russa hanno protestato vivacemente, ma certo la Russia non era esclusa dai funerali di Elisabetta II, una cerimonia di spettacolare universalità e solennità nel dolore di un’epoca intera, e come poteva?
La Russia era lì in spirito come parte della gran pasta d’Europa nei secoli delle comuni radici di cultura che resistono all’ambizioso provincialismo degli autocrati d’apparato. Il governo sì, invece, qualunque valore si voglia attribuire, rigore o sottile ipocrisia, al gran gesto britannico. Non si poteva non provare una triste soddisfatta tranquillità quando questa assenza si faceva notare tra i canti liturgici, tra le parate e la formidabile pompa cerimoniale dell’evento, e per una volta si può usare questa parola mondana e losca tanto abusata, “evento”, quando senza gli uomini di Putin si sentivano i passi cadenzati dai tamburi della guardia e dei marinai, si vedevano folle e fiori tra lo scalpiccìo di cavalli, colpi di cannone e rintocchi della campana di Sebastopoli al castello di Windsor, accordi bandistici, voci bianche, musiche di Chopin e Beethoven e Purcell e Bach, intimidenti trombe e cornamuse alternate alla coralità dell’organo. Chi genera caos e disperazione non è adatto all’armonia e al ritmo del raccoglimento del secolo.
Questo genere di sanzione dice molto sul senso comune inglese e sul ruolo storico di questo straordinario paese in Europa, Brexit o no. L’esclusione dalla comunità condolente di una pretesa superpotenza neoimperiale che fa la guerra nel continente, abusa delle frontiere e dell’indipendenza di un popolo, della sua sovranità e integrità statale, è arrivata come un segno o un messaggio di realismo, una impronta churchilliana sopravvissuta ai guasti dell’ultima grande guerra, la riaffermazione di un limite invalicabile al quale da sempre gli inglesi, con tutto il peso delle loro colpe storiche, del loro immenso egoismo nazional-monarchico, del loro famoso cinismo, hanno tuttavia fatto scrupolosamente la guardia. Putin a Westminster, nell’Abbazia fra gli altri dal mondo, sarebbe stata una legittimazione dell’inaudito, e insieme del ricorrente morbo totalitario, mentre Putin escluso è la risposta anche coreografica, viva e colorata, di chi non è disponibile alla ripetizione del già visto da queste parti.
I simboli sono parte decisiva dell’esercizio di autorità e potere. Putin lo sa, ci tiene e i suoi sono stati incaricati di lamentarsi pubblicamente. Ai simboli della liberalizzazione offerti da Gorbaciov il paese di Elisabetta II e di Margaret Thatcher fu tra i primissimi a offrire il ramo d’ulivo della riconciliazione. Alla plumbea simbologia dell’invasione è sempre l’Inghilterra a opporre un diniego, questa volta, che parla a miliardi di uomini nel mondo ed esprime un rigetto definitivo. La commozione di generazioni che hanno visto nella loro vita una sola persona con i suoi cappellini e i suoi cani e i suoi pony esercitare, e per settanta lunghi anni, l’inflessibilità della gentilezza e della grazia è comprensibile. Può dar fastidio l’identificazione modaiola, quest’idea un po’ banale di montare sul carriage di dolore di un altro popolo, di un altro paese, di una comunità fondata su costumi così particolari e unici, ma il gesto politico che corona l’imperturbabilità protocollare di un lungo regno ha qualcosa di speciale.
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