Prospettive
La guerra in Ucraina si risolverà (anche) con la politica. Ma diplomazia non sia sinonimo di rinuncia
Prima o poi un negoziato ci sarà, fa parte dei limiti intrinseci a ogni conflitto, l’importante è che non sia brandito come una parola d’ordine che sa di resa, di disfatta mascherata, di offesa a un paese vittima di un sanguinoso torto e di premio all’aggressione decisa da un despota
Chi è aggredito e si difende con valore, orgoglio e abnegazione ha il pieno diritto di guardarsi le spalle e pretendere un controllo politico e direi anche morale, un controllo assoluto, sulle ragioni e gli scopi ultimi della propria condotta. Il nazionalismo ucraino non fa scandalo, è pane di pura farina, è patriottismo e insieme difesa di democrazia e libertà in un quadro europeo e occidentale, contro la prepotenza autocratica dell’invasore. Chi spalleggia l’Ucraina, i suoi soldati, i suoi civili, i suoi profughi si vede imporre dalle circostanze della guerra dei costi molto alti ma incomparabilmente minori del costo di una resa alle ambizioni di dominio dell’imperialismo russo e della sua rete di protezione. Non è soltanto una questione di valori, è anche una questione di interessi comuni. Sono cose ovvie che non vanno trascurate non soltanto nella premessa, lo schieramento, gli aiuti economici e militari, le sanzioni dissuasive, ma nello svolgimento, cioè la condotta della guerra, l’esercizio della diplomazia e, quando e come possibile, la ricerca di una via d’uscita.
Non fa scandalo nemmeno il bilanciamento tra l’assoluto di una resistenza nazionale e di popolo e i limiti relativi che sono propri di ogni fenomeno storico, compresa la guerra. Putin minaccia l’uso del nucleare e ora usa come arma di intimidazione anche la propria debolezza sul campo, Zelensky pretende il riscatto totale di quanto è estorto agli ucraini in nome del loro eroismo e della necessità di andare fino in fondo nella sconfitta e punizione dell’estortore. Nessuno dei due alza la posta per ragioni retoriche e tattiche, o non solo per queste ragioni, entrambi sanno, come sempre accade a chi conduce le manovre limitate della politica, anche in guerra, che la ragione morale assoluta è limitata dai rapporti di forza, dai fatti e dalle loro conseguenze. Quanto all’alleanza occidentale in sostegno di Kyiv, la solidarietà morale di un’alleanza bellica fondata sull’idea non negoziabile di giustizia e la percezione dell’interesse comune alla pacificazione possibile vanno insieme e appartengono a tutti i soggetti impegnati nello scontro, con una gerarchia naturale tra chi è in prima linea e chi è nelle retrovie.
I fatti compiuti, come il massacro di un paese indipendente e lo scippo illegale dei suoi territori, come l’efficacia di una controffensiva che mette a rischio la baldante sicurezza di un invasore nel cuore delle sue smodate ambizioni di vittoria, sono la base per saggiare il terreno, per capire tempi e modi di uno svolgimento che appare immobile confronto tra assoluti, tra elementi irreversibili. La responsabilità delle classi dirigenti è poi questo distinguere senza sofismi tra princìpi intoccabili e fatti che li piegano ora di qua ora di là. Quando Sanna Marin, la premier finlandese, alla domanda sulle condizioni della pace risponde seccamente che queste condizioni sono il ritiro della Russia dal paese invaso dice una cosa vera, e oggi anche più credibile di ieri, agli inizi dell’invasione; ma ucraini e occidentali sanno, come sappiamo tutti, che a decidere questo esito non saranno solo le armi e il coraggio, senza i quali la storia della guerra per la libertà sarebbe già finita, ma un percorso politico. Che è radicato nella combattività, nella disponibilità al pagamento di alti costi umani, economici e strategici impliciti nello scontro a difesa della civiltà europea e dell’alleanza occidentale. Prima o poi un negoziato ci sarà, fa parte dei limiti intrinseci a ogni guerra, l’importante è che non sia brandito come una parola d’ordine che sa di rinuncia, di disfatta mascherata, di offesa a un paese vittima di un sanguinoso torto e di premio all’aggressione decisa da un despota.