sentenze ingiustificate
La surreale condanna del giornalista russo che ha detto la verità su Mosca e la Wagner
Il conduttore Alexei Venediktov è stato dichiarato colpevole per aver definito Prigozhin, intimo amico di Putin, titolare della compagnia di mercenari. Lui ha ammesso di esserne il fondatore, ma il Tribunale ha confermato il verdetto contro ogni evidenza
“Interferire con il lavoro dei tribunali è del tutto inammissibile”, così si rispondeva il presidente Vladimir Putin lo scorso dicembre, alla richiesta di commentare la condanna a otto anni e mezzo di reclusione del consigliere municipale di Mosca, Ilya Yashin. E in effetti per il Cremlino non c’è bisogno di immischiarsi, perché i tribunali, in epoca di legge marziale, sembrano compatti nel dare seguito all’opera di soppressione del dissenso. Ieri un tribunale di Mosca ha definitivamente revocato la licenza di Novaya Gazeta, il quotidiano indipendente diretto dal premio Nobel, Dmitry Muratov.
Del giorno prima è, invece, un’altra pronuncia che ha interessato lo storico giornalista Alexei Venediktov, 68enne conduttore e proprietario della radio “L’Eco di Mosca” (Echo Moskvy), la cui licenza era stata revocata dalle autorità russe dopo l’invasione dell’Ucraina. La vicenda trae origine da un’accusa rivolta a Evgenij Prigozhin, 61 anni, un passato ad ammannire cene per Putin come titolare di una ditta di catering, assurto agli onori della cronaca negli ultimi mesi, da quando, cioè, il Cremlino lo ha incaricato di mobilitare nuovi volontari da mandare al fronte in Ucraina.
Nel 2021, Venediktov aveva apertamente definito Prigozhin titolare della compagnia privata Wagner, nata in gran segreto una decina di anni fa per reclutare mercenari da inviare in teatri di guerra nei quali la Russia ha un interesse strategico a inserirsi senza figurare come parte in causa. Secondo alcune inchieste giornalistiche, i combattenti di Wagner sono stati impiegati in Africa (dal Mali alla Repubblica centrafricana) e in medio oriente (in Siria), ma soprattutto hanno avuto un ruolo significativo a partire dal 2014, quando Mosca finanziò la nascita di gruppi separatisti del Donbas, alimentando il conflitto con l’Ucraina.
Accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, il gruppo è noto per la sua ferocia e per l’iconografia ispirata al misticismo neonazista. Nonostante sia ormai universalmente noto che la Wagner sia guidata da Prigozhin e che Prigozhin sia, a sua volta, alle dipendenze – invero, piuttosto mal digerite – del ministero della Difesa russo, fino a qualche mese fa egli ha sempre recisamente negato questo suo coinvolgimento. Rispetto all’accusa rivoltagli da Venediktov, Prigozhin aveva, pertanto, deciso di citarlo in giudizio per diffamazione, ottenendo un anno più tardi la condanna del giornalista, nel frattempo schedato come “agente straniero” dal ministero della Giustizia.
Senonché, nell’agosto scorso, in una fase della guerra in Ucraina nella quale la visibilità di Prigozhin era notevolmente aumentata, egli ha pubblicamente dichiarato di essere il fondatore del gruppo di mercenari, ma di aver dovuto tenere riservata l’informazione fino a quel momento. A questo punto, Venediktov ha colto la palla al balzo per proporre appello contro la condanna subita, nella (vana) speranza di poter agevolmente dimostrare che la sua non era affatto diffamazione. In questi casi, infatti, di fronte alla querela, è sempre possibile per l’imputato opporre l’exceptio veritatis, ossia la dimostrazione della verità obiettiva dell’informazione percepita come diffamatoria. Nel gennaio di quest’anno, visto che non c’era ormai più nulla da nascondere, Prigozhin aveva persino ammesso che Venediktov aveva ragione e si era dichiarato pronto ad accettare la sconfitta giudiziaria.
Ma alquanto incredibilmente, il Tribunale del distretto Presnenskij di Mosca ha rigettato l’appello di Venediktov, confermandone la condanna. Mentre Prigozhin ha affidato al proprio ufficio stampa un comunicato sprezzante nel quale ha espresso soddisfazione per il consolidarsi di un chiaro sentimento antiliberale nella società russa e ha irriso il condannato per il fatto di essere uno dei pochi dissidenti che ancora non sono fuggiti dal paese. Venediktov ha preso atto del dispositivo della sentenza, ma, in attesa del deposito delle motivazioni, ha preferito non commentare. Raggiunto dal Foglio, ha infine replicato con il sarcasmo che lo contraddistingue: “È oltraggioso che la Corte non abbia creduto al signor Prigozhin. Che non si fidino di me che sono un ‘agente straniero’ è senz’altro comprensibile, ma che non credano alle parole dello stesso Prigozhin, un intimo amico di Putin, significa che il sistema giudiziario è davvero al collasso… Ho, comunque, intenzione di portare il caso davanti alla Corte costituzionale”. La battaglia tra Prigozhin e Venediktov è, quindi, destinata a proseguire e con essa anche l’incessante opera dei tribunali russi nella soppressione del dissenso.
Guerra in Ucraina